La società civile è strutturalmente incapace di superare i conflitti logici e materiali tra interesse individuale e comune, perché è corrotta dalla sua stessa composizione. Il risultato è il fallimento etico (la madre di tutti i fallimenti del mercato e dello Stato), quella famigerata “povertà in mezzo all’abbondanza” che riguarda le persone, ma anche l’ambiente e, in ultima analisi, la stessa sopravvivenza dell’umanità
La prospettiva elettorale in questo strano agosto si presenta inquietante, ma, allo stesso tempo, nel ricorso a una procedura codificata e condivisa e in assenza di spinte alla violenza, presenta anche degli aspetti rassicuranti. Tuttavia, i venti di guerra calda e fredda e la pandemia ancora in corso mantengono un velo di incertezza sul futuro che si intreccia in modo imprevedibile con le sorti economiche e politiche del nostro Paese e del mondo intero. Siamo in gran parte ancora all’interno di convulsioni populistiche nelle democrazie liberali, mentre i paesi con regimi totalitari appaiono, almeno in superficie, molto più stabili. Questa differenza è in parte la conseguenza e in parte la causa dei fallimenti sociali della globalizzazione. Essa è preoccupante perché, stendendo un ulteriore velo di incertezza sulle alleanze e le lealtà internazionali, contribuisce a generare turbolenze all’interno e all’esterno del nostro Paese.
Per valutare le opzioni presentate dai diversi partiti, è bene ricordare che la rivoluzione keynesiana, invocata in modo diverso esplicito o implicito da quasi tutti i programmi elettorali, non è limitata alle grandezze aggregate, o al tentativo di utilizzare lo Stato per spezzare il circolo vizioso della disoccupazione. Essa piuttosto nasce da un paradosso a lungo ignorato dagli economisti: il fatto che il mercato si proietta naturalmente nella cosiddetta società civile, ma che questa viene “corrotta” proprio dalle esigenze del mercato, nel senso che gli interessi individuali le impediscono di generare istituzioni capaci di tenere conto adeguatamente del bene comune.
I conflitti che risultano da questa contraddizione riguardano l’essenza stessa del governo di una società giusta, e consistono in un contrasto spesso sotterraneo, ma continuo, tra incentivi individuali e obiettivi sociali. Nell’organizzazione dello Stato, ciò porta alla frammentazione istituzionale, un tentativo di recupero di potere da parte degli interessi individuali minacciati dall’emergenza della autorità pubblica, che spezza la catena di comando e ribalta la struttura sociale lungo una dimensione di conflittualità e inefficacia. Nelle transazioni commerciali, la ricerca del profitto, in mancanza di un quadro regolatorio efficace, spinge i mercati verso allocazioni inique e fallimenti di contratti privati e sociali.
La società civile è quindi strutturalmente incapace di superare i conflitti logici e materiali, tra interesse individuale e comune, perché è corrotta dalla sua stessa composizione (in termini moderni si direbbe “ dalla sua microfondazione”). Il risultato è il fallimento etico (la madre di tutti i fallimenti del mercato e dello Stato), quella famigerata “povertà in mezzo all’abbondanza” che riguarda le persone, ma anche l’ambiente e, in ultima analisi, come hanno scritto sia Hegel che Keynes, la stessa sopravvivenza dell’umanità.
Da questa constatazione discende la mancanza di fiducia di Keynes (ma anche keynesiana in senso lato) nella capacità di auto-risoluzione delle circostanze economiche, che non solo non possono autoregolarsi, ma il cui affidamento stesso alla volontà dei governi, democratici o non, riposa sulla illusione che una semplice divisione di compiti tra pubblico e privato possano sanare una contraddizione strutturale. Si tratta di una contraddizione Hobbesiana, per cui solo una forma accettabile di Leviatano può essere efficace. Si tratta tuttavia anche della conseguente ansietà, del tutto speculare rispetto alle speranze illuministiche, che nasce dalla paura che la riconciliazione delle pulsioni individuali e dell’etica collettiva sia di fatto impossibile.
In effetti, la ragione keynesiana rilancia lo Stato come potere razionale ultimo e imprescindibile, ma , allo stesso tempo, dispiega uno scetticismo fondamentale nei suoi confronti e, in particolare, nei confronti di tutti i modi popolari (e populisti) della politica. Quest’ultima, infatti, non si può che ritenere un tentativo di rinegoziare il contratto sociale, continuamente minacciato, ma senza riuscire a sottrarsi alle stesse contraddizioni che ne insidiano la esistenza. Tali contraddizioni, infatti sono il risultato degli interessi e delle rivendicazioni che per definizione sono un prodotto delle dinamiche interne della società civile. Lo Stato e le sue diverse incarnazioni, anche nella ricerca convulsa di istituzioni e di riforme più adeguate, combatte sempre con se stesso, come la espressione ultima di una società che non riesce a superare i propri confini etici e le pulsioni individuali.
La relazione tra le macro-variabili, quali la disoccupazione e la povertà, e le variabili individuali, quali i risultati economici dei singoli o delle famiglie è quindi segnata dalla dicotomia tra interessi individuali e bene comune. Essa identifica i limiti ineludibili della società civile, in particolare, la sua continua incapacità, ma anche estrema esigenza ad autoregolarsi, pena la perdita dell’ordine sociale e il pericolo che la comunità, o parte di essa, discenda in uno “stato di natura” catastrofico. Il pensiero keynesiano si sviluppa intorno a questa minaccia che discende dalla paura di trascurare la vera sfida della politica, considerando come naturali ed acquisite realtà complesse e difficili da governare. In particolare, né lo Stato né il mercato, e, più in generale, né la civiltà né il capitalismo sono naturali; se lasciate ad autoregolarsi, le cose non si prenderanno cura di sé stesse. Keynes scrisse notoriamente che “nel lungo periodo siamo tutti morti”.
Le ragioni della incapacità di governo della società civile sono anche alla base della critica keynesiana dello Stato liberale, almeno inteso come emanazione dell’economia classica e il keynesianismo, come corrente più ampia e successiva di pensiero, è in continuità con questa critica, di cui scopre sempre nuove intuizioni storiche. Il cosiddetto Stato liberale, sembra suggerire l’analisi keynesiana, è in balia di individualismi e spinte contrapposte che ne impediscono una effettiva azione di governo e portano al disordine e al caos sociale. Ma esso finisce anche per incorporare tratti individuali deteriori sotto forma di emozioni collettive, che alimentano l’umiliazione o il risentimento e perpetuano uno stato di conflitto permanente tra le diverse nazioni ed orrori simili, anche se di origine diversa di rivoluzione e reazione. In Le conseguenze economiche della pace (1919), Keynes scrisse: “Se miriamo all’impoverimento dell’Europa centrale, la vendetta, oserei dire, non zoppicherà. Nulla può quindi ritardare a lungo le forze della Reazione e le disperate convulsioni della Rivoluzione, davanti alle quali gli orrori dell’ultima guerra tedesca svaniranno nel nulla, e che distruggeranno, chiunque sia vincitore, la civiltà e il progresso della nostra generazione.”
Si tratta sempre del richiamo Hobbesiano, ma come dovremmo avere imparato dall’esperienza, quando questo richiamo è ignorato per troppo tempo, l’ansia interventista cresce e assume linee sempre più drammatiche di crescente estremismo, che finiscono per configurare fallimenti alternativi, tra rivoluzione e reazione, molto più dannosi, dell’azione collettiva. E’ chiaro che il keynesianismo è stato ed è un modo per ricercare una “terza via”, quella di democrazie allo stesso tempo efficienti e liberali, ma che questa via è difficile da tracciare e sempre stretta e spesso impraticabile. Il problema più difficile da affrontare è tuttavia dovuto all’impotenza della politica, perché questa è inquinata da una deriva sociale che a sua volta dipende dalla sua incapacità di farsene carico. Il “problema economico”, la “questione sociale” o, più prosaicamente, “la pressione della strada” sono all’origine del peccato originale di quella che Keynes chiamava una “comunità moderna”, in cui la politica è distorta dall’incapacità di affrontare fatti apparentemente ineluttabili quali la povertà e l’ingiustizia.
Il problema dell’ambiente rientra in questa contraddizione, nel senso che esso manifesta una ulteriore forma di povertà e di ingiustizia, e che minaccia anch’esso il tessuto della società civile. Più in generale, nelle fasi più critiche, ma anche meno drammatiche della vita di una società, l’ansia Hobbesiana si placa e prevale lo spirito del laisser faire. In queste fasi, il fallimento del mercato e dello Stato si manifestano entrambi come una carenza di capacità di azione: autoregolazione nel caso del mercato e governo da parte dello Stato. Lo Stato recede su posizioni minimaliste e diventa troppo timido per assumere ruoli efficaci di governo, regredendo a funzioni di mera regolazione procedurale. La carenza di azione collettiva si accumula però sotto forma di risentimento, e di dimensioni emotive e corporee che generano e supportano il desiderio di agire per la politica e il processo decisionale.
La povertà e la disoccupazione sembrano la piaga insanabile della società moderna, che si accompagna alla massiccia sottoutilizzazione delle risorse economiche, che va dagli edifici alle macchine e agli stock di materie prime. Questa sottoutilizzazione è un aspetto di un problema più ampio, quello del disallineamento dei prezzi dei beni e servizi da quelli dei beni capitali, che si manifesta in un rapporto spesso convulso tra l’economia reale e la finanza e nella espansione irrazionale e insostenibile delle economie urbane. L’urbanizzazione sempre più intensa e selvaggia del pianeta è una manifestazione dello squilibrio fondamentale tra bisogni e consumi, e della incapacità di regolare i risparmi che discende dal fallimento congiunto del mercato e dello stato. La crescita della popolazione mondiale è sempre più concentrata in aree che a loro volta concentrano l’accumulazione di capitale fisico, sotto forma di infrastrutture e di strutture abitative e la logistica della vita quotidiana. Questa a sua volta comporta enormi squilibri territoriali in termini di trasporti, magazzinaggi, reti di distribuzione, uffici e residenze.
L’esperienza recente della pandemia ha mostrato come le abitazioni dei centri urbani possano divenire delle trappole, che è necessario chiudere per impedire la diffusione delle infezioni, ma che allo stesso tempo definiscono la propria funzione come luoghi di esistenza confinata e dipendente, che esercitano una pressione sempre più devastante sulla natura. La stessa esperienza ha dimostrato come sia possibile, con le tecnologie attuali, attivare forme di lavoro a distanza che permettono di aggirare l’apparente necessità di convivere e lavorare in spazi ristretti, affrontando ogni giorno forme costose e sempre più inaccettabili di pendolarismo tra periferie e centri urbani.
La ricostruzione del territorio è la priorità dopo la pandemia, perché quest’ultima ha mostrato come le economie di agglomerazione siano fonte di rischi e di costi sociali latenti e come esse siano controbilanciate da esternalità negative drammatiche nel campo della salute e dell’ambiente. Un nuovo modello di insediamento diffuso, e di sviluppo sostenibile è possibile. Questo modello è tutto da scoprire, e poco presente nei programmi elettorali e nel corrente dibattito politico. Alcune grandi linee, già presenti, almeno in nuce, nel PNRR, si possono tuttavia identificare. Queste sono: infrastrutture leggere e “smart”, una gestione consapevole e continua da parte delle comunità locali delle risorse naturali e della salute, una rete di monitoraggio e controllo, integrata con il tessuto dei beni culturali e con le nuove tecnologie di comunicazione. Come ha dimostrato la recente legislazione bi-partisan appena approvata negli Stati Uniti, è su questi temi che è necessario rilanciare il dibattito politico e raccogliere un consenso sociale non meramente di facciata e non basato su slogan apodittici o su improbabili palingenesi fiscali.