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Tecnici e politici. Pennisi legge Pomicino

Il Grande Inganno-Controstoria della Seconda Repubblica, volume firmato da Cirino Pomicino, con la prefazione di Ferruccio de Bortoli, ed edito da Lindau, ha tre differenti dimensioni: la prima pertiene alla storia politica italiana negli ultimi trent’anni; la seconda ha il tema del ceto politico; la terza ragiona sui governi tecnici. Lo ha letto per Formiche.net Giuseppe Pennisi

Il libro di Paolo Cirino Pomicino “Il Grande Inganno-Controstoria della Seconda Repubblica” ha tre differenti dimensioni, la prima esplicita le altre due (forse più importanti) implicite. La prima pertiene alla storia politica italiana negli ultimi trent’anni. La seconda ha il tema di come e perché se un ceto politico (quello della “prima Repubblica”) ha esaurito il proprio compito non se ne è formato un altro di pari livello. La terza si chiede se i costi dei “governi tecnici” sono inferiori o superiori ai loro benefici.

La prima dimensione è di piacevole lettura (meravigliosa la paginetta dedicata al governo Ciampi). Si può essere d’accordo o meno con tutti gli aspetti della ricostruzione ma è sempre utile leggere il punto di vista di chi è stato, al tempo stesso anche se in momenti differenti e con enfasi diverse, sia protagonista sia osservatore.

La seconda mi ha ricordato un libro che lessi con passione circa cinquanta anni fa: The Best and the Brightest, un resoconto del giornalista David Halberstam (capo dell’ufficio di Washington sulle origini della guerra del Vietnam pubblicato da Random House. Il focus del libro è sulla politica estera elaborata da accademici e intellettuali che erano nell’amministrazione del presidente John F. Kennedy, e le conseguenze di tali politiche in Vietnam. Il titolo si riferiva ai “ragazzi maghi” di Kennedy – leader dell’industria e del mondo accademico portati nell’amministrazione – che Halberstam definì insistenti su “politiche brillanti che sfidavano il buon senso” in Vietnam., Viene spontanea la domanda: perché i “best and brightest” non si indirizzano più alla politica come fecero in Italia negli anni del “miracolo economico” e sino alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso. Due politologici americani fecero una dettagliata ricerca circa un quarto di secolo quando il fenomeno cominciava ad essere chiaro negli Stati Uniti (dove in mancanza di best and brighest si è arrivati a Donald Trump): gli incarichi sono precari, si guadagna poco, occorre dare la caccia ad elettori e finanziatori. Infine, in caso di necessità, si è chiamati a “servire”, per un periodo più o meno lungo, o come tecnici prestati alla politica oppure in governi tecnici.

Qui si pone il problema se per il Paese i benefici economici superano i costi politici quando le politiche pubbliche sono affidate a governi “tecnici” nel senso di esecutivi che non rappresentano la volontà degli elettori (quelli espressi nelle urne l’ultima volta che ci si è andati) pur se approvati dagli organi deputati a questo scopo (il Parlamento nelle moderne “democrazie rappresentative parlamentari”)?

È tema trattato da politologici e da storici dell’economia. Le risposte di questi ultimi non favoriscono i governi “tecnici”. C’è, ad esempio, consenso sul fatto che ci fosse sviluppo nell’Atene oligarchica ma non tecnocratica di Pericle mentre Sparta, affidata a “tecnici”, ebbe un triste destino. Karl Wittfogel ha documentato come gli Imperi “idraulici” (Babilonia, Egitto, Incas) governarono i corsi d’acqua ma bloccarono lo sviluppo. In tempi più vicini ai nostri, Douglas C. North ha avuto, nel 1991, il Premio Nobel per l’Economia per avere analizzato cinquecento anni di storia del mondo occidentale e dimostrato che lo sviluppo è stato associato a giochi cooperativi e bassi costi di transazione scaturenti dalla politica e dal suo corretto funzionamento. Il suo allievo, Robert Putman, ha applicato il metodo di North all’Italia: in quella parte dove sono nate e cresciute “repubbliche comunali” piene di politica fatta “di passione, sangue e merda” (come ama dire un politico italiano) c’è stato sviluppo mentre, per circa mille anni, c’è stata stagnazione in quella dove i Re regnavano ma il governo era affidato a tecnocrazie (spesso neanche di alto livello). Circa quindici anni fa, la Banca mondiale ha pubblicato uno studio comparato di Brian Levy e di Francis Fukuyama in cui si giunge a conclusioni analoghe.

Guardando all’Italia di questi ultimi lustri, si possono annoverare almeno tre fasi in cui ci si è rivolti a governi “tecnici”: il 1995-96 con l’esecutivo Dini, il 1993-94 con quello Ciampi e il 1976-78 con i governi “della solidarietà nazionale”. Gli esiti dei primi due sono analizzati in modo asettico in due documenti della Banca d’Italia – i “Temi di discussione” n. 334 e 335. I lavori partono dall’assunto che il percorso definito con il Trattato di Maastricht – giusto o errato che fosse – ha avuto costi maggiori nei Paesi che invece di seguirlo con perseveranza, hanno alternato “episodi di restrizione” (di politica di bilancio) con “episodi di espansione”; si sono disorientati gli agenti economici interni e internazionali e, per giungere all’obiettivo di entrare nella moneta unica, si è pagato un prezzo più alto del dovuto.

L’Italia ha effettuato un forte aggiustamento nel 1991-93 (quasi il 6% del Pil) seguita però da una pausa sino al 1995-97. Inoltre, la manovra della primavera 1995 (governo Dini) per rimettere in sesto i conti è stata effettuata essenzialmente operando sulle imposte indirette attizzando, quindi, aumenti dei prezzi. Questi errori “tecnici” effettuati da governi “tecnici” hanno accentuato un effetto di un altro errore “tecnico” compiuto a fine 1989: la decisione di entrare nella fascia di oscillazione stretta dello Sme (2,25%) e contestualmente rimuovere le ultime vestigia di controlli valutari. Sarebbe stato preferibile abolire quel che restava dei controlli, fare oscillare per qualche mese la lira nella fascia larga (6%), vedere dove il cambio si assestava ed entrare, poi, in quella stretta. Si sarebbe evitato il rischio di un sovrapprezzamento che portiamo ancora sulle nostre spalle. Allora, Guido Carli era ministro del Tesoro, Carlo Azeglio Ciampi governatore della Banca d’Italia e Lamberto Dini direttore generale.

Pur se “la solidarietà nazionale” aveva obiettivi politici molto vasti, nasceva dall’emergenza economica (la crisi valutaria del gennaio 1976), al pari dei governi “tecnici” Ciampi e Dini. I risultati di breve periodo non sono stati esaltanti: un deprezzamento della lira del 16% tra il 1976 ed il 1978, un tasso d’inflazione che nel 1978 superava di quasi dieci punti quello della Germania, un forte incremento del debito pubblico. Nel lungo periodo, le due “riforme” cardine di quel periodo – la normativa sulla riconversione industriale ed il varo del servizio sanitario nazionale – si sono rivelate costose e venivano modificate già all’inizio degli Anni Ottanta.

Per attizzare queste riflessioni il libro di Paolo Cirino Pomicino merita di essere letto e soprattutto meditato.

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