Con quale ratio vengono assegnati i seggi tra le diverse forze politiche di una stessa coalizione? Pino Pisicchio fa un passo indietro e ricorda quando in piazza Santi Apostoli a Roma, a pochi metri da piazza Venezia e quasi in faccia al museo delle cere, aveva sede il quartier generale dell’Ulivo di Prodi. Là si facevano le trattative per la compilazione delle liste…
Una ventina d’anni fa mi capitava di partecipare al rito collettivo della compilazione delle liste elettorali in vista delle elezioni, tra una folla di capi-partito che componevano la vasta famiglia del centro-sinistra. Io rappresentavo Rinnovamento Italiano, una formazione centrista che concorreva a formare i petali della Margherita, insieme con sigle che oggi si rintracciano solo sui libri: l’Asinello, i Popolari, l’eterno Mastella prodotto in una delle sue creazioni che a quel tempo si chiamava Udeur.
In piazza Santi Apostoli a Roma, a pochi metri da piazza Venezia e quasi in faccia al museo delle cere, aveva sede il quartier generale dell’Ulivo di Prodi. Là si facevano le trattative per la compilazione delle liste con l’ambizione di mettere insieme una cospicua varietà di soggetti eterogenei, da Marco Rizzo, supercomunista, al pezzo di socialisti di area centro-sinistra, a qualche sparuto repubblicano, ai pezzi postdemocristiani di cui si è detto. Insomma un gran viavai che aveva come obiettivo concludere in notturna, prendendo per estenuazione i negoziatori meno tetragoni.
Come venivano distribuite le candidature? Allora vigeva il Mattarellum, che era più o meno come il Rosatellum di oggi, ma con valori rovesciati: la parte maggioritaria in quella legge era prevalente (75%) e quella proporzionale con le liste bloccate era minoritaria (25%, ovviamente). Bisognava trovare un criterio oggettivo per andare avanti e così venne elaborato un metodo di riparto tra i soci dell’alleanza, che faceva riferimento ad un mix tra gli ultimi risultati elettorali conseguiti, in cui aveva valore più rilevante il voto delle recenti elezioni regionali, valutato più “politico”. Attribuito ad ogni alleato questo valore si passava poi a definire il riparto dei collegi uninominali a disposizione della coalizione.
Qui valeva il metodo Dante Alighieri: avete presente la piramide rovesciata dell’Inferno? Bene: alla sommità, al posto dei peccatori lievi (non battezzati, lussuriosi, golosi) c’erano tre cerchi di collegi “buoni”. Il top era quello dove alle ultime regionali la coalizione di centrosinistra aveva realizzato un risultato che sopravanzava quello di Berlusconi di più di 5000 voti. Nel cerchio centrale la fascia ancora molto buona, quella con risultato tra + 5000 e +1500. Il terzo cerchio era sempre positivo, ma tra +1500 e 1, dunque buono ma non buonissimo. Più sotto c’era il limbo degli incerti, che tutti volevano evitare. Ancora più sotto (dopo le “mura della città di Dite”), c’erano le bolge cattive, simmetriche e opposte alle prime tre: i collegi perdenti che tutti guardavano con ribrezzo.
Ovviamente il rigore dei criteri non ostacolava contrattazioni ulteriori: mi prendo due collegi semi-buoni invece che uno solo buonissimo, te ne dò quattro perdenti ed uno buono ma di fascia tre e tu mi dai quello in Toscana, e così via. Una settimana di trattative, che ebbe il suo clou nell’ultima notte prima della consegna delle liste. Come sempre accade. Fu molto faticoso, l’Ulivo perse, ma in quelle serate di trattative scoprimmo insospettabili umanità persino nella politica politicante. Scrissi, stimolato a farlo da Concita De Gregorio, allora parlamentarista dell’Unità, anche un pamphlet con forti venature sarcastiche: “La sera andavamo ai Santi Apostoli”, ed. Levante. Ebbe un inaspettato successo di pubblico e di critica e finì nelle bibliografie di libri universitari.
Al netto delle strizzatine d’occhio alla nostalgia, c’è un dato interessante di comparazione da fare tra il metodo “Dante Alighieri” del 2001 e le trattative di oggi. Ieri, alla fine della fiera, c’era una base di realtà, rappresentata dal concreto risultato elettorale riportato pochi mesi prima alle elezioni regionali. Insomma: la gente aveva votato scegliendo partiti e persone. Oggi per ripartire le candidature comuni nei collegi uninominali si ricorre, invece, al dato virtuale del sondaggio. Ecco che la sondaggiocrazia fa il suo ingresso trionfale nelle istituzioni. Attenzione: in mancanza di scelta dal basso (sono 28 anni che la gente non può più scegliere il proprio candidato preferito ma solo ingoiare i rospi che le liste, bloccate o uninominali, gli propongono), il voto al tempo del Rosatellum è solo una consultazione sul gradimento dei simboli, perché i candidati sono sottratti al vaglio degli elettori.
Dunque, se i candidati sono in qualche modo figli dei sondaggi allora vuol dire che il sondaggio diventa elemento costitutivo nella formazione delle assemblee parlamentari. Il che, francamente, un po’ c’inquieta.