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Tutta colpa degli Usa? Cosa non va nel racconto italiano su Pelosi a Taiwan

Chiunque si occupa di Cina lo sa bene: parlare di Taipei è un rischio. Ecco che la maggior parte dei commentatori hanno scelto il profilo basso e seguito la linea ufficiale di Pechino definendo il viaggio della speaker della Camera come una “provocazione” di Washington. Il commento di Stefano Pelaggi, docente alla Sapienza Università di Roma

La prova di forza dell’Esercito di liberazione popolare su Taiwan sembra terminata. Nelle prossime settimane sapremo se sarà una quarta crisi nello Stretto o se rimarrà un singolo momento di alta tensione dopo la visita di Nancy Pelosi, speaker della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, a Taipei. Intanto, possiamo tratte una conclusione sulla copertura mediatica.

“Eh certo la Pelosi” è stata la principale interpretazione dei media italiani: la rappresentazione del viaggio come una provocazione statunitense o una scelta personale di una donna alla fine della sua carriera politica e alla ricerca di una visibilità internazionale è stata onnipresente. Le pretese cinesi su Taiwan sono state presentate come qualcosa di “dato”, probabilmente eccessivo ma oramai radicato e quindi immutabile. Da “tutti i cinesi la pensano così” a “punto fermo della dottrina del Partito comunista cinese”, il fatto che Taiwan debba diventare cinese è un assioma inconfutabile per i media italiani. Le spiegazioni storiche si fermano a “Taiwan mai sotto il controllo della Repubblica popolare cinese” fino a un confuso riepilogo della One China Policy e degli altri accordi che regolano le relazioni sino-taiwanesi statunitensi. Il messaggio è “si tratta di una questione troppo complicata e oramai così radicata nei cuori e nelle menti dei cinesi da lasciare ben poche speranze”. Nessuno ha tentato una ricostruzione del complesso mosaico etnico taiwanese e dei diversi processi di colonialismo nell’isola – dalla dinastia Qing ai giapponesi al Kuomintang.

A parte rare eccezioni, si è palesato in maniera chiara il percorso degli ultimi 5 anni con sinologi e commentatori che ci parlano della complessità della Cina, delle opportunità economiche dell’Italia nella Repubblica popolare cinese, di qualsiasi cosa declinato con caratteristiche cinesi, dei 5.000 anni di storia, della necessità di capire la Cina, eccetera. Studiosi della poesia Tang finanziati da Istituti Confucio e diventati esperti di politica internazionale, antiamericani viscerali che hanno trovato nuova linfa, veterocomunisti pronti ad accettare un Partito comunista diventato più grande attore del capitalismo globale, scappati di casa pronti a qualsiasi cosa pur di ricevere attenzione e qualche viaggio gratuito, personaggi di altissimo livello del recente passato istituzionale arruolati come conferenzieri strapagati ma anche accademici che si occupano di Cina e temono di doversi esprimere sulla questione taiwanese e giornalisti e studiosi seri e preparati che non possono esprimere il proprio giudizio su Taiwan, senza rischiare ripercussioni dalle istituzioni cinesi.

Chiunque si occupa di Cina lo sa bene: parlare di Taiwan è pericoloso. Si rischia di venire bannati, perdere finanziamenti, pregiudicare rapporti. Chi insegna materia come la lingua cinese o Storia della Cina rischia di perdere scambi accademici o di non poter inviare i propri studenti nella Repubblica popolare cinese. Un giornalista può perdere l’opportunità di entrare nel Paese – quando e se si potrà.

Forse non è proprio pericoloso, ma in generale meglio evitare. In questo caso molto meglio profilo basso e linea ufficiale di Pechino: provocazione statunitense.

(Foto: Twitter @SpeakerPelosi)



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