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La Via della Seta va fuori strada in Pakistan e Bangladesh

Di Matteo Turato

Ambiziosi progetti cinesi si scontrano con cattiva gestione, corruzione e il generale rallentamento dell’economia globale. I casi emblematici del porto di Gwadar e i negoziati sul debito di Dacca gettano ombre e quesiti sulla fattibilità del progetto. Sullo sfondo, il fallimento di un disegno geopolitico?

Stringere legami economici e approfondire la cooperazione e lo sviluppo nella regione eurasiatica (…). Dovremmo adottare un approccio innovativo e costruire insieme una cintura economica lungo la Via della Seta.
Sono passati nove anni da quando il presidente cinese Xi Jinping pronunciò queste parole alla Nazarbayev University di Astana in Kazakistan inaugurando la nuova Belt and Road Initiative (Bri), e  traendo ispirazione dall’antica via commerciale che per secoli ha collegato la Cina al Mediterraneo attraverso l’Asia Centrale.

Ad oggi sono 144 i Paesi che hanno siglato protocolli di intesa per unirsi a questo mega-progetto, la cui ambizione ufficiale è quella di facilitare il commercio e l’interconnessione infrastrutturale nell’area eurasiatica, e che, in un’ottica geopolitica, rientra nell’obiettivo cinese di tornare a giocare un ruolo da Grande Potenza globale, proponendo un sistema di scambi internazionali alternativo a quello statunitense.

In questo senso vengono spesso proposti parallelismi con il Piano Marshall, l’ingente progetto di ricostruzione dell’Europa Occidentale nel dopoguerra ad opera di Washington.
A questo scopo Pechino sta riversando capitali, tecnologia e capacità nei Paesi che costituiranno la spina dorsale del progetto, primi tra tutti Pakistan e Bangladesh.

Il Pakistan, con una lunga storia di stretti rapporti con la Repubblica Popolare, è stato tra i primi Paesi ad aderire alla Bri, sfruttando il preesistente framework del China-Pakistan Economic Corridor (Cpec), un programma che ammonta a 62 miliardi di dollari, secondo il Times of India.

Pechino, fornitrice di sicurezza, energia e investimenti infrastrutturali, vede nella città portuale di Gwadar il proprio sbocco sull’Oceano Indiano, area geografica di vitale importanza per la rotta marittima della Via della Seta, vista la vicinanza con lo Stretto di Hormuz e conseguente accesso al Mediterraneo. In questa città si concentrano gli sforzi economici cinesi per rendere il porto un grande hub di integrazione regionale, ed è per questo che i progressi in quest’area possono essere esemplificativi per dare giudizi sulla Bri.

A dire il vero, i progressi ad oggi compiuti sono poca cosa rispetto alle ambizioni iniziali.
Uno scalo aeroportuale internazionale, una centrale elettrica a carbone, un ospedale, due impianti di desalinizzazione, una linea ferroviaria, varie infrastrutture portuali per l’ancoraggio di navi da pesca e da cargo: questi i progetti, per lo più ancora su carta, alcuni in costruzione tra vari impedimenti. Attualmente risultano operativi solamente una parte del porto per le navi da pesca, una piccola centrale elettrica e la Eastbay Expressway, un’autostrada di 17 chilometri che collega il porto con l’entroterra.

Solo questione di tempo? Non è così semplice.

Secondo gli abitanti di Gwadar, la costruzione delle infrastrutture portuali impedisce ai pescatori locali l’accesso alle acque antistanti al porto, sia per impedimenti fisici (l’autostrada preclude l’accesso al braccio di mare a Est), sia per le misure di sicurezza messe in atto dalle autorità locali a protezione delle aziende.

La manodopera non è assunta sul posto, ma importata dalla Cina e tenuta ben separata dalla popolazione locale, che non vede né un aumento dei posti di lavoro, né un possibile indotto.
Le questioni securitarie sono un ulteriore tasto dolente, dato che il movimento indipendentista del Baluchistan compie regolarmente attacchi di sabotaggio alle strutture, causando la militarizzazione dell’area.

Se a questi elementi si aggiunge che la zona è sottoposta a frequenti blackout elettrici e a carenza di acqua, la ricetta è sufficiente per creare tra la popolazione un forte astio verso questo progetto e verso il governo di Shehbaz Sharif, che continua a spingere fortemente per la cooperazione con Pechino. Astio che si concretizza nei frequenti disordini che caratterizzano l’area ormai da qualche anno.

A fine maggio diverse fonti hanno riferito che la HK Sun Corporation, una delle principali aziende coinvolte nel programma Cpec, si sarebbe ritirata a causa dell’infattibilità economica del progetto. La notizia è stata smentita dalle fonti ufficiali cinesi, ma resta comunque un significativo campanello di allarme che pone dubbi sulle reali capacità della Repubblica Popolare di portare a termine progetti di questo genere in aree del mondo caratterizzate da instabilità politica e sottosviluppo economico.

Altro caso emblematico risulta essere quello del Bangladesh.
Dacca ha formalizzato l’adesione alla Bri nell’ottobre 2016, con un volume di investimenti concordati di circa 50 miliardi di dollari, rendendolo il secondo paese destinatario più importante dopo il Pakistan.

Il copione è stato lo stesso: scandali di corruzione tra autorità statali e aziende cinesi, cattiva gestione e proteste popolari scatenate dallo scarso interesse cinese per la sorte delle comunità coinvolte dai progetti infrastrutturali.

I rapporti tra i due Paesi si sono ulteriormente deteriorati lo scorso anno quando Pechino ha cominciato ad alzare i toni contro un possibile ingresso di Dacca nel Quadrilateral Security Dialogue, il meccanismo di sicurezza a guida americana nel Sud Est asiatico, che vede coinvolti gli Stati Uniti insieme a Giappone, India e Australia.

Da allora il Bangladesh si sta sempre di più smarcando dal progetto cinese. Se da un lato è vero che Pechino è il secondo principale creditore del debito estero bangladese, è vero anche che Dacca cerca investitori non cinesi per risollevarsi dalla crisi attuale, primi tra tutti le agenzie multilaterali come IMF e Banca Mondiale. Ancora più significativo, il governo bangladese ha deciso di cancellare una serie di infrastrutture pianificate da investitori cinesi per prediligere progetti di esigenza più immediata. Questo episodio segna come anche i Paesi più vicini alla Cina temano la cosiddetta trappola del debito, l’ormai nota politica predatoria tramite la quale prestatori si impongono nel capitale al primo accenno di insolvenza, di fatto espropriando l’infrastruttura all’insolvente.

La Repubblica Popolare vuole tornare ad essere una Grande Potenza, cioè ad esercitare la propria influenza su scala globale. Per farlo deve vincere la competizione con gli Stati Uniti, costruendo un sistema globale alternativo a quello americano, se non un modello culturale, quantomeno un modello economico. Fino a dieci anni fa questa ipotesi sembrava plausibile, oggi appare più improbabile.

Le conseguenze sofferte dai paesi in via di sviluppo in Africa e in America Latina; il generale rallentamento dell’economia mondiale causato dalla pandemia da Covid-19 (e la sua gestione); le politiche cinesi verso Hong Kong e Taiwan; il generale deterioramento del quadro geopolitico mondiale; gli squilibri economici e demografici interni al Paese: sono tutti fattori che gettano dubbi sulla effettiva capacità cinese di costruire questo ordine alternativo.

La sorte della Belt and Road Initiative nei due paesi cruciali sembra essere emblematica.

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