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Berlusconi e von der Leyen, due svarioni di fine campagna

L’ex premier ricostruisce l’invasione dell’Ucraina come un tentativo di “mettere persone perbene al posto di Zelensky”, con il povero Putin “caduto in una situazione drammatica”. La presidente spiega che se l’Italia prende la strada dell’Ungheria, a Bruxelles “hanno gli strumenti” per correggere la rotta. Per fortuna si vota tra poco (qui i video integrali)

È un bene che domani scatti il silenzio elettorale, perché le ultime ore ci hanno regalato due scivoloni – li definiamo così per rispetto nei confronti dell’età di uno e del ruolo dell’altra – da restare a bocca aperta. Silvio Berlusconi ha dato la “sua” versione dei fatti sulla guerra in Ucraina, raccontandola come un’operazione speciale in cui “le truppe dovevano entrare, in una settimana raggiungere Kiev, sostituire con un governo di persone perbene il governo di Zelensky ed in una settimana tornare indietro. Invece hanno trovato una resistenza imprevista e imprevedibile che poi è stata foraggiata con armi di tutti i tipi dall’Occidente”.

Dopo aver passato mesi a dire che l’amicizia ventennale con Putin non avrebbe condizionato il suo impegno europeista e atlantista, il leader di Forza Italia, collegato con Bruno Vespa a Porta a Porta, offre una ricostruzione dell’invasione dell’Ucraina che non si è vista neanche nei programmi della tv russa, con il povero Vladimir Putin “caduto in una situazione difficile e drammatica” perché le repubbliche russofone del Donbass lo hanno implorato di intervenire, e con loro la popolazione russa, i giornali, i ministri.

L’ex premier chiude poi questa parentesi back to the Dacha con l’impegno, nonostante tutto, a mantenere il sostegno all’Ucraina “perché non possiamo in nessun modo e per nessuna ragione rompere la nostra partecipazione all’Europa, alla Nato, all’Occidente, agli Stati Uniti”.

A qualche migliaio di chilometri, alla Princeton School of Public and International Affairs, Ursula von der Leyen stava concludendo il suo keynote speech. Una studentessa italiana le chiede se è preoccupata dalle elezioni imminenti, e lei parte da lontano: “la democrazia ha bisogno di tutti voi, è un costante lavoro in corso, non è mai al sicuro. Va protetta. Vedremo l’esito delle elezioni, ne abbiamo appena avute anche in Svezia. Qualsiasi governo democratico che vuole lavorare con noi, lavoreremo insieme. Se le cose vanno in una situazione difficile – prima vi ho parlato di Ungheria e Polonia – abbiamo gli strumenti. Se le cose vanno nella giusta direzione… E le persone, cui un governo deve rispondere, hanno un ruolo importante”.

Nel suo discorso, la presidente della Commissione europea aveva parlato delle misure inflitte all’Ungheria per il mancato rispetto dello stato di diritto, e a queste faceva riferimento nel suo “abbiamo gli strumenti”. Ecco, a due giorni dalle urne, immaginare uno scenario in cui il prossimo governo italiano prenda immediatamente la strada di Orbán (che è stato premier per 12 anni prima di essere “sanzionato”) e debba dunque essere punito da Bruxelles, vuol dire non avere molto chiare le dinamiche democratiche che con il suo discorso intendeva difendere. Quel we have the tools suona come una minaccia sinistra, e rimbalzerà per settimane sui social di un elettorato che non ha bisogno di fantasia per immaginare l’Europa come un’arcigna distributrice di schiaffoni. È un whatever it takes al contrario.

Anche il resto della risposta sarebbe stato meglio pronunciarlo in un momento diverso. È indubbio che una volta arrivati al Consiglio europeo, i leader “che dicono voglio questo, voglio quello” abbassano le pretese perché “sono in mezzo a 26 membri” e si rendono conto che “il futuro e il benessere del loro Paese dipende anche dagli altri, ed è il bello della democrazia”. Ma dirlo in riferimento a un premier che ancora non c’è, a un soffio dalla fine della campagna elettorale, ha quel tono paternalistico che finisce per ritorcersi contro chi lo usa.

Possiamo consolarci con un elemento divertente: il discorso di Ursula von der Leyen è stato pronunciato al Liechtenstein Institute on Self-Determination, fondato nel 2000 all’Università di Princeton e sostenuto in questi anni grazie alle “generose” donazioni del principe del Liechtenstein. Parliamo di quel piccolo stato in mezzo alle Alpi che fino al 2009 era considerato dall’Ocse un “paradiso fiscale che non cooperava con le istituzioni internazionali”. Insomma, anche nelle università ivy league americane ci sono tanti modi di intendere la democrazia, e siamo sicuri che quella italiana sopravviverà pure a queste elezioni.


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