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Tutti i punti caldi per Xi tra Putin, congresso e decoupling. Parla Small (GMF)

Guerra in Ucraina, il congresso del Partito Comunista, Taiwan e strategie di decoupling. Sono solo alcuni dei temi a cui il presidente Xi deve pensare mentre incontra il suo omologo russo in Uzbekistan. Ne parliamo con Andrew Small, esperto di Asia del German Marshall Fund

Nel quadro dell’importante vertice della Shanghai Cooperation Organization (Sco), i riflettori sono accesi sul faccia a faccia tra Xi Jinping e Vladimir Putin sulle relazioni tra i due Paesi nel mondo che verrà. Ma quali sono i temi più importanti sul tavolo del presidente cinese? Lo abbiamo chiesto ad Andrew Small, Senior Fellow dell’Asia Program del German Marshall Fund.

Nella cornice del vertice Sco, gli occhi sono puntati sul meeting tra Xi Jinping e Vladimir Putin. Come sta incidendo la guerra sul rapporto tra i due Paesi?

L’aspettativa cinese era sicuramente che la Russia avrebbe vinto velocemente, che questa sarebbe stata una operazione militare simile agli interventi in Siria e in Crimea, e che le relazioni di Mosca con l’Occidente si sarebbero riaggiustate senza proseguire nella spirale delle sanzioni. Dopo la Crimea erano state implementate sanzioni, è vero, ma Mosca era riuscita a normalizzare i rapporti in maniera significativa.
La Repubblica Popolare si vede allo specchio nella situazione in Ucraina: utilizzando la narrativa del grande stato che viene messo all’angolo,

Pechino supporta apertamente l’operazione speciale indicando come colpevoli la Nato e gli Stati Uniti. Per come stanno le cose in questo momento non c’è ragione per Xi Jinping di prendere le distanze da Vladimir Putin, cosa che avrebbe potuto fare facilmente con la scusa del non poter lasciare il Paese in vista del prossimo congresso del partito. Al contrario, questo è il suo primo viaggio all’estero da quasi mille giorni, il che gli conferisce una forte valenza simbolica sia all’esterno (di vicinanza a Putin) sia all’interno (di solidità del proprio governo). Pechino non ha mai abbandonato Mosca dall’inizio dell’invasione, e avrebbe avuto diverse occasioni per farlo. Sicuramente la leadership cinese avrebbe preferito vedere una vittoria russa, ma la solidarietà continuerà a prescindere dall’andamento del conflitto.

Il Presidente cinese deve anche prepararsi per il prossimo congresso del Partito.

Come detto, con il suo viaggio all’estero si mostra molto fiducioso. Significa che può stare qualche tempo lontano da Pechino, anche se manca pochissimo al congresso, e che non è preoccupato dalla politica interna. Questo è un momento in cui Xi può mostrare che la Cina continua ad avere sostegno internazionale, che esistono consessi al di fuori del G7 in cui la Repubblica Popolare è benvenuta, che esiste una buona parte del mondo in cui i leader sono ben contenti di farsi vedere in pubblico con lui e con Putin.

La Shanghai Cooperation Organization (Sco) rappresenta una porzione del globo decisamente significativa, dal punto di vista geografico e demografico. Il messaggio è: non abbiamo bisogno dell’Occidente, non abbiamo bisogno degli Stati Uniti, né dei loro alleati in Asia. Anche se le relazioni si deteriorano con quel blocco, esiste ancora un grosso gruppo di Paesi che continueranno a intrattenere rapporti con la Cina. Pechino non può e non vuole fare a meno dell’Occidente per i suoi scambi commerciali, ma questa narrativa contiene certamente un fondo di verità.

Xi otterrà il terzo mandato?

Sì, tutti gli indicatori puntano in questa direzione. Non ci sono elementi che possano suggerire il contrario al momento.

L’Occidente dovrebbe avere paura di un leader rinvigorito dalla rielezione? Potrebbe mostrarsi più aggressivo, anche sulla questione Taiwan?

Credo che l’escalation dopo la visita di Nancy Pelosi a Taiwan sia piuttosto emblematica. Si osservava già una certa assertività cinese da qualche anno e credo che si continuerà su questo binario, anche se l’interrogativo sul quando avverrà l’invasione rimane di difficile risposta. Su questo la guerra in Ucraina ha probabilmente giocato un ruolo nello spingere alla prudenza la leadership cinese. Sia dal punto di vista militare, su quanto possa essere efficace un’operazione di questo genere, sia dal punto di vista della reazione degli Stati Uniti e loro alleati.

Le sanzioni contro la Cina sul sistema bancario, sulla tecnologia, sul controllo delle esportazioni, avrebbero un impatto molto serio, più che sulla Russia, per la stretta interdipendenza commerciale con il “blocco” avversario. Poi, sicuramente le considerazioni di tipo militare pesano molto, visto che l’Esercito Popolare di Liberazione (Pla) non ha significative esperienze di combattimento su teatri così complessi. Sicuramente vedremo una Cina aggressiva che continua a coltivare seriamente il progetto di una coalizione da contrapporre all’Occidente, in un confronto che ha dimensioni politiche, ideologiche, economiche e militari. In sostanza nulla di diverso dagli ultimi anni.

Negli ultimi anni si è molto parlato di decoupling, la strategia di “sganciamento” delle catene del valore dalla Repubblica Popolare, iniziata ufficialmente dall’amministrazione Trump. A che punto siamo oggi?

Bisogna coesistere con la Repubblica Popolare. L’intero campo occidentale intrattiene profondi legami commerciali con essa. Per gli Stati Uniti, così come per l’Unione Europea, l’India e il Giappone le interazioni economiche continuano a livelli enormi. E la Cina non ha alcun interesse a diminuirli. Dappertutto nel mondo i flussi commerciali non si sono significativamente ridotti e, in parte, nemmeno quelli degli investimenti. Ci sono sicuramente alcune aree specifiche dove il decoupling avviene, ed esiste una maggiore consapevolezza dei rischi della dipendenza dall’export cinese. Il caso esemplare è quello delle restrizioni sugli investimenti diretti negli Stati Uniti, e viceversa quelli americani in Cina, nelle aree ad alta tecnologia e in generale le aree con ripercussioni sulla difesa nazionale.

E’ interessante anche il caso della Germania, perché il nuovo governo sta considerando nuove misure per non aumentare la dipendenza dalla Cina nei prossimi anni. Questa è un’inversione di tendenza importante se consideriamo che il governo tedesco ha per molto tempo incentivato gli scambi con la Repubblica Popolare. In ogni caso nessun Paese sta mettendo in atto un decoupling omnicomprensivo, che tra l’altro penso sarebbe  impossibile da realizzare e comporterebbe conseguenze disastrose per qualunque economia avanzata. Dal canto suo, nemmeno Pechino vuole interrompere i flussi ovviamente, quindi non credo che assisteremo al formarsi di blocchi separati.

L’Italia nel 2019 ha siglato un Memorandum of Understanding con la Cina per partecipare al progetto Belt and Road Initiative (Bri). Alcuni membri del governo di allora difendono la scelta sostenendo la necessità del Paese di aumentare il proprio export verso la Cina raggiungendo gli alti livelli di stati come la Francia o la Germania. Ma il memorandum nel frattempo è rimasto lettera morta. 

E’ molto difficile per i Paesi sovraesposti rispetto all’import cinese riuscire a smarcarsi ora, nel senso di aumentare il proprio export. Sarebbe stato più semplice dieci anni fa, con un momento politico diverso. D’altra parte, l’adesione a progetti come la Bri comporta seri rischi per il Paese ricevente. Si sarebbe dovuta effettuare una seria analisi su quali fossero le aree di scambio che producono un reale mutuo beneficio, quali fossero i rischi geopolitici, quali i rischi di sicurezza. Ad esempio, molte aziende americane sono ancora dipendenti dal commercio cinese, ma gli investimenti cinesi sono stati proibiti nei settori economici strategici per il Paese.

Di recente la zero Covid policy cinese è stata al centro dei riflettori, anche perché simbolo della presa di Pechino sull’economia e sulla vita dei propri cittadini. Quali sono i rischi interni che il Partito potrebbe dover affrontare?

L’economia cinese è in difficoltà, e la zero Covid policy è parte del problema. Non credo, però, che ci siano minacce politiche immediate al Partito Comunista. Il trend che abbiamo visto negli ultimi anni e che proseguirà è il progressivo controllo dello Stato, quindi del Partito, sull’economia, che ha creato un clima molto incerto dal punto di vista di chi fa affari. E questo naturalmente ha allontanato diverse aziende dal Paese. Il momento economico che la Cina vive oggi è sicuramente il peggiore dalla crisi di Piazza Tienanmen, con una scarsa crescita e grosse vulnerabilità.

La domanda per il prossimo futuro è: si ritornerà indietro per consentire un po’ di respiro al Paese e alla crescita? Credo che parecchi funzionari governativi ritengano che la morsa sull’economia sia andata troppo oltre. Probabilmente questo tema sarà centrale durante il congresso del Partito. Se la scelta politica dello zero Covid dovesse continuare, aumenteranno anche le pressioni contrarie, fomentate dallo scarso spazio politico concesso. Non è un rischio di breve termine, ma è una questione che si protrarrà negli anni a venire. L’altra questione importante che si discuterà sarà la politica di personalizzazione della scena portata avanti da Xi Jinping. Dopo Mao, il Partito ha sempre cercato di evitare il culto della personalità dei leader e Xi ha invertito questa tendenza.

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