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Le quattro ragioni del faro internazionale sul voto italiano. Scrive Coratella (Ecfr)

Di Teresa Coratella

L’attenzione e la preoccupazione circa il risultato elettorale in Italia hanno dominato il dibattito interno alle coalizioni e governi europei su quale ruolo avrà l’Italia in Europa e come l’Italia intenderà, o no, contribuire al rafforzamento del progetto europeo. L’analisi di Teresa Coratella, programme manager dell’ufficio di Roma dello European Council on Foreign Relations

Due le grandi novità di questa campagna elettorale in vista del voto del 25 settembre. La prima, visibile e concreta: per la prima volta da decenni, la politica estera ha dominato il dibattito elettorale italiano. Le scelte intraprese dal governo Draghi su Russia e Ucraina e, conseguentemente, su energia e sanzioni, hanno fatto della politica estera il pilastro attorno al quale i leader e partiti hanno decifrato e sviluppato la propria campagna elettorale.

La seconda novità, altrettanto concreta ma meno visibile, è come le cancellerie europee guardino alle elezioni italiane. L’attenzione e la preoccupazione circa il risultato elettorale in Italia hanno dominato il dibattito interno alle coalizioni e governi europei su quale ruolo avrà l’Italia in Europa e come l’Italia intenderà, o no, contribuire al rafforzamento del progetto europeo.

Quattro le principali argomentazioni dietro a questo interesse. In primis, le capitali europee hanno finalmente avuto modo di comprendere come un’Italia a guida stabile e propositiva sia di beneficio per la stabilità dell’Italia stessa ma soprattutto dell’Unione europea nel suo insieme. Non solo per l’atlantismo ed europeismo dimostrati da Mario Draghi e il suo governo, ma soprattutto per la capacità di tale leadership di avanzare proposte e promuovere e rafforzare, come nel caso delle sanzioni alla Russia o della membership ucraina dell’Unione europea, una posizione europea stabile e coordinata. Qualsiasi sia il risultato elettorale italiano, Parigi e Berlino sono consapevoli della perdita politica che l’Unione europea dovrà gestire come anche delle grandi difficoltà che probabilmente incontreranno nel ri-costruire nuove e sicuramente diverse relazioni con il nuovo esecutivo.

La seconda argomentazione e preoccupazione riguarda Italia e Russia. Il grande dilemma delle cancellerie europee è su come il nuovo esecutivo deciderà di sostenere o no la posizione europea su sanzioni alla Russia: torneremo alla situazione in cui l’Italia agirà, insieme all’Ungheria di Viktor Orbán, da elemento destabilizzante del sistema sanzionatorio o Roma continuerà a sostenere la posizione europea? È proprio qui che emerge come non mai come in passato quanto politica interna e politica estera non possano prescindere l’una dall’altra: Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, in quanto senior partner della coalizione, dovrà gestire le ambiguità politiche sulla Russia di Lega e Forza Italia come anche la vicinanza a Vladimir Putin di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. E proprio la gestione del rapporto con la Russia di Putin a rappresentare il tallone d’Achille di un possibile governo di centro destra e la spina del fianco della leader di Fratelli d’Italia.

Il terzo fattore, le conseguenze delle elezioni italiane sugli equilibri di potere all’interno dell’Unione europea. Con Draghi presidente del Consiglio, il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz potevano contare sul rafforzamento dell’asse europeo atlantista, europeista, ancorato a stato di diritto e difesa dei valori e delle istituzioni democratiche. Con un eventuale prossimo governo a guida euroscettica e nazional-populista, il grande rischio che Berlino e Parigi vedono man mano concretizzarsi, è quello di una radicalizzazione della divisione interna all’Unione europea su stato di diritto e democrazia. La “Coalizione dei disturbatori” con a capo l’Ungheria di Orbán, è al momento indebolita dall’allontanamento tra Budapest e Varsavia avvenuto come conseguenza delle posizioni divergenti su Russia e Ucraina. Meloni e Jarosław Kaczyński non sono stati mai così politicamente vicini mentre non vale lo stesso per Kaczyński e Orbán mai così lontani. Nel caso di un governo a guida Meloni, presidente in Europa del gruppo dei Conservatori e Riformisti, Berlino e Parigi si chiedono quanto questo inciderà nei rapporti di equilibrio in seno all’Unione europea e quanto Fratelli d’Italia deciderà, se deciderà, di entrare nelle dispute tra Varsavia e Budapest da una parte e Bruxelles dall’altra. Se l’invasione russa dell’Ucraina ha momentaneamente congelato la difficile dialettica tra Polonia e Unione europea, non è lo stesso per Ungheria e Unione europea. Orbán continua a rimanere un grande problema per Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, come anche il punto di riferimento di Meloni in Europa. Il dialogo tra le due leader su come gestire il dossier ungherese costituirà una grande novità per il ruolo che l’Italia intende avere in Europa e molto dipenderà da come Meloni vorrà affrontarlo.

Infine, un quarto elemento sul perché le elezioni italiane costituiscano una priorità per le capitali europee. Il voto del 25 settembre è riuscito a catturare l’interesse di governi e capitali tradizionalmente non interessati alle questioni italiane, se non attraverso quel filtro esclusivo della minaccia italiana alla stabilità economica e finanziaria dell’Unione europea, che per anni ha caratterizzato il modo in cui si è sempre guardato alle vicende politiche italiane. Per la prima volta, Copenaghen, Riga, Vilnius, Tallin, Stoccolma, Helsinki, guardano preoccupate alle conseguenze derivanti dal non avere più in Europa un’Italia vocale, proattiva e in prima linea nella gestione unitaria della Russia e delle conseguenze, soprattutto in materia securitaria e sanzionatoria, delle decisioni di Putin.

L’agenda europea di Draghi, sin dalle prese di posizione contro il “dittatore” turco Recep Tayyip Erdoğan, poi con la gestione della presenza economica cinese in Italia e infine con Putin, ha costituito un tassello significativo e senza precedenti per l’Europa. Qualunque sia il prossimo governo, l’eredità politica di Draghi sarà difficilmente rimpiazzabile, forse più in Europa che in Italia stessa.

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