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Qualcosa si muove nella fusione nucleare. I progressi in Corea

KSTAR

Gli scienziati hanno mantenuto una reazione di fusione a 100 milioni di gradi per 30 secondi. Non sono dati record, però dimostrano che non si tratta più di una sfida fisica, ma ingegneristica. Dopo decenni senza fondi, oggi la ricerca sta facendo enormi progressi anche grazie al settore privato

Buone notizie sul fronte della ricerca nucleare. Il reattore Kstar dell’Istituto coreano per l’energia da fusione (Università Nazionale di Seul) ha mantenuto una reazione di fusione nucleare a 100 milioni di gradi per più di 30 secondi. Non si tratta di risultati record, scrive il New Scientist, ma la loro combinazione segna un passo in avanti sulla strada verso un reattore realizzabile. Ammesso e non concesso che si possa fare scaling.

La fusione nucleare è il processo che tiene accese le stelle e racchiude la promessa di generare quantità immense di elettricità sicura a impatto zero. Per riprodurlo qui sulla Terra, in assenza della pressione che permette agli atomi nel nucleo del Sole di fondersi a “solo” 10 milioni di gradi, dobbiamo compensare con la temperatura – con valori ben superiori a 100 milioni di gradi – e confinare il plasma incandescente con magneti potentissimi.

PROGRESSI SU TUTTA LA LINEA

Ultimamente la ricerca globale continua a produrre risultati interessanti. A gennaio, il progetto East (Accademia cinese delle scienze) ha sostenuto una reazione per 17 minuti a 70 milioni di gradi. A febbraio, gli scienziati britannici di Jet hanno recuperato 11 megawatt, il maggior quantitativo di energia mai estratto dal processo di fusione, in cinque secondi di reazione. A luglio, gli americani di Tae hanno superato la soglia dei 135 milioni di gradi. E a novembre dell’anno scorso una società partecipata da Eni, Cfs, ha costruito dei magneti adatti al confinamento.

I risultati di Kstar (che sta per Korea Superconducting Tokamak Advanced Research) espandono la comprensione riguardo il controllo della massa di plasma, il “cuore” del processo. Si tratta di trovare il giusto compromesso tra temperatura e densità della materia per confinare la massa di plasma e far durare la reazione nel tempo. Se il confinamento non funzionasse, il plasma danneggerebbe gravemente i componenti del reattore prima di “spegnersi”. Per questo il risultato dei ricercatori coreani è incoraggiante: la reazione che hanno innescato iniziava ad assomigliare a un processo sostenibile.

Quello di Kstar era un plasma meno denso, più freddo ai bordi rispetto al centro, cosa che dovrebbe aumentare la durevolezza dei componenti interni del reattore. La reazione è stata interrotta dopo 30 secondi per limiti dell’hardware, ma in futuro dovrebbe durare di più: ora il team sta migliorando i materiali per riuscirci. Tuttavia, non si sa ancora se una soluzione come quella di Kstar si possa replicare in scala su dimensioni più grandi – come quelle del maxi-reattore Iter, il progetto internazionale a cui partecipa anche l’Italia.

UN PROBLEMA D’INGEGNERIA (E FINANZIAMENTO)

Forse il dato migliore a uscire dall’esperimento coreano è l’ulteriore conferma che produrre energia mediante fusione nucleare non è più un problema fisico (“si può fare?”), ma ingegneristico (“come lo facciamo?”). I processi fisici alla base sono sempre più compresi, ha detto Lee Margetts dell’Università di Manchester al New Scientist, oggi si tratta di ostacoli tecnici da superare prima di poter costruire una centrale elettrica funzionante.

Sapendo che si può fare, e considerando i problemi energetici e climatici del momento, viene da chiedersi perché non ce l’abbiamo ancora fatta. La battuta ricorrente tra gli addetti ai lavori è che la fusione è sempre dietro l’angolo – da almeno mezzo secolo. E qui entrano in gioco i finanziamenti, la “benzina” dei problemi ingegneristici.

Nel 1976 il Dipartimento dell’energia statunitense aveva calcolato quattro probabili traiettorie di sviluppo della tecnologia, a seconda dei soldi che sarebbero stati spesi in ricerca. Lo sforzo più moderato (2-4 miliardi all’anno) avrebbe spostato il traguardo al 2005. Peccato che il livello medio di investimenti da allora sia stato ben inferiore a mezzo miliardo all’anno. Per mettere il dato in contesto, gli Usa oggi spendono circa 650 miliardi di dollari per sussidiare l’industria (concorrente) dei combustibili fossili.

Anche al netto delle variabili e delle incertezze, dell’aggiustamento del valore storico degli investimenti e della limitatezza geografica di questo esempio, il trend è lampante. E deprimente: se avessimo investito di più, oggi saremmo più vicini a risolvere l’emergenza enegetico/climatica? È la stessa domanda che si è posto il settore privato, che negli ultimi anni è in crescita meteorica, mobilitato dalle enormi opportunità finanziarie che presenta la sfida della decarbonizzazione.

Gli ultimi dati dell’associazione industriale di riferimento, la Fusion Industry Association, parlano di 4,8 miliardi di dollari mobilitati nel 2022 – un aumento del 139% rispetto al 2021 – di cui 1,8 solo per la startup di Eni, Cfs. Gran parte dei risultati di cui sopra sono il risultato di attività private, e le più ambiziose promettono di dimostrare la fattibilità della tecnologia (con reattori più piccoli rispetto a Iter) già nei prossimi anni. Watch this space.


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