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Scholz primo leader occidentale a tornare in Cina? La nuova strategia tedesca

La Germania sembra volersi allineare alla strategia americana di contenimento della Repubblica Popolare Cinese. Unione europea e Berlino, dopo il blocco del Cai, virano su catene di valore “locali”, ma non sarà semplice a causa della profonda interdipendenza economica tra i due blocchi

Indiscrezioni riportate da Bloomberg sostengono che il cancelliere tedesco Olaf Scholz stia preparando una visita a Pechino a latere del meeting del G20 in programma a Bali a metà novembre. Il viaggio sarebbe parte di un tentativo di ristrutturare la strategia tedesca nell’Asia-Pacifico. Dall’insediamento del nuovo governo, Berlino sta lavorando per elaborare una nuova strategia nazionale, che renda la Germania meno dipendente nei confronti della Repubblica Popolare, che possa diversificare le catene di approvvigionamenti e potenziare la sicurezza. In poche parole, sembrerebbe che il cuore dell’Europa si voglia allineare sulla posizione dell’alleato americano.

Gli elementi a favore di questa tesi si sommano nelle ultime settimane. Al recente summit delle Nazioni Unite a New York, Scholz ha accusato la Cina di violazioni dei diritti umani e ha sollecitato il governo cinese ad adottare le raccomandazioni dell’Alto Commissario per i diritti umani a proposito della situazione degli uiguri. Inoltre da tenere a mente è anche l’apertura verso il Giappone in primavera da parte del cancelliere tedesco, uno strappo con le politiche verso l’Asia di Angela Merkel. Durante il suo viaggio a Tokyo, il cancelliere aveva preso posizioni riguardo a “una globalizzazione più intelligente” con evidente riferimento al necessario sganciamento dalle catene del valore cinesi.

La scorsa settimana la Commissione Europea ha annunciato una proposta di divieto di importazioni sui prodotti frutto di lavoro forzato, sempre in relazione alla situazione nella remota regione dello Xinjiang. La presidente Ursula von der Leyen ha criticato i finanziamenti cinesi ad alcuni istituti di ricerca ed ha annunciato un piano di “difesa della democrazia” diretto a controllare i finanziamenti esteri delle istituzioni accademiche europee, in modo da “fare luce su investimenti coperti e finanziamenti poco chiari”.

La Germania è il Paese di riferimento per comprendere dove andrà l’Unione Europea su questi temi. Il ministero degli Esteri tedesco ha recentemente fatto sapere che avrebbe istituito la carica di rappresentante speciale nel Pacifico. Inoltre a fine agosto, Berlino aveva partecipato per la prima volta a una grande esercitazione militare che si tiene ogni anno al largo della costa nord dell’Australia e che vede coinvolti diciassette paesi, tra cui gli Stati Uniti, la Francia, e il Regno Unito.

Sembra lontana l’epoca della cancelliera Angela Merkel, che con Xi Jinping aveva instaurato un rapporto particolare, sfruttando parecchio la complementarietà delle due economie manifatturiere. Nel dicembre 2020, poi, la Commissione europea aveva siglato il Cai, l’accordo per gli investimenti con la Repubblica Popolare che aveva sostanzialmente ignorato le questioni delle violazioni dei diritti umani. Nel marzo 2021 Bruxelles aveva imposto sanzioni su alcuni funzionari governativi cinesi per gli abusi nello Xinjiang, e Pechino aveva reagito specularmente contro alcuni europarlamentari, portando al congelamento dell’accordo. Da allora i rapporti politici tra i due blocchi si sono solamente deteriorati. La repressione cinese su Hong Kong, la scarsa trasparenza sulla gestione del Covid-19, e oggi il sostegno più o meno tacito all’invasione russa dell’Ucraina non hanno giovato alle relazioni.

Questione più complessa è quella dei rapporti economici. L’interscambio è ancora molto voluminoso, e l’Ue ha più volte rimarcato che la cooperazione con la Cina è essenziale sul tema dei cambiamenti climatici, per non parlare delle connessioni sempre più profonde con l’Ungheria di Orbán. Nonostante il deterioramento geopolitico, gli investimenti europei in Cina sono aumentati del quindici per cento nella prima parte del 2022 rispetto all’anno precedente, secondo i dati di Bloomberg. Negli ultimi anni mercato cinese è stato una salvezza per molte aziende straniere, che hanno compensato le recessioni e i lockdown nei Paesi d’origine con la rapida gestione del Covid e la crescita dell’otto per cento nel 2021. La situazione si è ribaltata nel 2022, con la zero covid policy del Partito Comunista Cinese, e le stime di crescita al ribasso.

Tuttavia molte aziende europee continuano a vedere più pro che contro. La tedesca Bmw ha inaugurato all’inizio di quest’anno un ampliamento multimiliardario della fabbrica di Shenyang, Audi sta costruendo il suo primo impianto di veicoli elettrici nel Paese e Airbus SE sta consolidando la sua posizione nel mercato cinese grazie a una linea di assemblaggio finale locale che le ha permesso di ottenere il mese scorso un ordine del valore di oltre 37 miliardi di dollari.

Se per decoupling si intende l’abbandono totale della Cina da parte delle aziende straniere, o almeno la riduzione significativa della attività e la diversificazione degli investimenti, questo non sembra accadere. Per ora alcune aziende stanno scegliendo l’opzione meno radicale di separare le loro operazioni in Cina da quelle globali. Le cosiddette “strategie di localizzazione” prevedono la creazione di catene di fornitura e partnership locali per evitare di essere coinvolti nella mischia dei rischi geopolitici. Non manca un aspetto pericoloso e sottile. A causa della pandemia il numero di lavoratori stranieri nelle compagnie presenti in Cina è fortemente diminuito a favore di impiegati locali. La pressione politica, poi, fa sì che le aziende rischino di perdere il controllo effettivo sulle branches dislocate nella Repubblica Popolare. Come nel caso della creazione di un Comitato del Partito Comunista all’interno della filiale cinese della banca d’investimenti Hsbc.


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