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Marche, basta con il lockdown dell’inazione sui cambiamenti climatici

Di Emilio Ciarlo ed Erasmo D'Angelis

La dura lezione delle Marche deve servire a farci cambiare registro. Serve un Big Bang culturale e operativo, tanto più urgente di fronte alla cruda verità di essere una penisola-bersaglio di tanti rischi. L’Agenzia Italiana per la cooperazione allo Sviluppo proprio per questo ha promosso l’evento “Mare Climaticum Nostrum”, la prima conferenza sul clima nella regione Mediterranea. L’intervento di Emilio Ciarlo ed Erasmo D’Angelis

Tre ore. Nella stretta striscia tra Cantiano e Senigallia, in sole tre ore, dal cielo è piovuta l’acqua che vedono cadere in quasi un anno, 420 mm in Comuni dove al massimo piovono fra i 600 e i 900 mm in 12 mesi. Così, dopo sei lunghi mesi di siccità e ondate di calore, il cataclisma meteoclimatico ha potuto sollevare l’asfittico fiume Misa dal quasi zero idrometrico a 6 metri di altezza dando alle acque in discesa verso la foce di Senigallia una terrificante potenza esplosiva.

Questo è colpa certo di un evento abbastanza imprevedibile, un temporale autorigenerante (V – Shaped) che si autoalimenta quando, in loop continuo, si creano le condizioni perché l’acqua cada, evapori e ricostituisca le celle temporalesche in un tratto geografico maledettamente limitato. Ma nelle Marche, da Pianello di Ostra a Cantiano a Senigallia, acqua e fango ci dicono che gli eventi catastrofici susseguitisi negli ultimi mesi – calcolati dalla Protezione civile ad una media di oltre uno al giorno con la strage degli 11 morti per il distacco da fusione del ghiacciaio della Marmolada alle alluvioni lampo, dai nubifragi violentissimi ai cicloni tropicalizzati sulle nostre coste, dalle mareggiate agli incendi -, sono qui per restare e, per questo, non possiamo più permetterci ritardi sulla percezione dei rischi climatici. Né tantomeno possiamo indugiare sulla pianificazione di opere e interventi urgenti per affrontare il dissesto idrogeologico dei territori, o tollerare ancora l’assenza di piani di educazione al rischio (si muore soprattutto per comportamenti sbagliati), lo stallo della legge contro il consumo di suolo, il ritardo del “Piano clima nazionale di adattamento e mitigazione” fermo al 2017. Non solo. La tecnologia e lo stesso know-how italiano deve fare ancora passi in avanti con sistemi di tecnologie per alert sempre più di dettaglio, di now-casting, di machine learning e intelligenza artificiale che permettono previsioni, in real time, sull’evoluzione di tempeste e nubifragi.

Ci sono comunità su territori che stanno affrontando a mani nude sfide titaniche che mai avrebbero immaginato di dover affrontare. Vittime, perdita di affetti e di beni, smarrimento, dolore, disperazione dei colpiti accompagnano ogni stato di emergenza idrogeologica e meteo-climatica per i quali stiamo pagando costi incalcolabili in vite umane, e in devastazioni di aree naturali e aree urbane. Accanto ad affetti e valori non certo risarcibili c’è anche un costo dei danni provocati: circa 4 miliardi all’anno dal dopoguerra ad oggi, saliti a circa 8 miliardi negli ultimi due anni.

L’Italia è tra gli avamposti mondiali della rischiosità più scoperti e vulnerabili, purtroppo ancora nell’incoscienza e nella sottovalutazione. Per questo il peggio non è mai alle nostre spalle.

In una sorta di “lockdown dell’inazione”, facciamo poco o nulla per arrestare o almeno mitigare le conseguenze dei cambiamenti climatici. Scriveva Albert Camus ne “La Peste” che “nel mondo ci sono state, in egual numero, pestilenze e guerre; e tuttavia pestilenze e guerre colgono gli uomini sempre impreparati”. Vorremmo smentire Camus, almeno in parte. Come? Inserendo nell’”organismo Italia” la cultura della prevenzione e dell’adattamento come antidoti e come impegni permanenti. Lo abbiamo visto, sorpresi da una pandemia sanitaria, quanto ha contato non esserci occupati per tempo di aggiornare i Piani di emergenza e rafforzare i presidi sanitari. Con la forza di una natura che sta cambiando, reagendo a nuovi equilibri, con questa “pandemia climatica” noi dovremmo purtroppo misurarci ancora.

Per questo motivo, l’Agenzia Italiana per la cooperazione allo Sviluppo, insieme alla Protezione civile e al Centro Euromediterraneo sui cambiamenti climatici e alla Fondazione Earth Water Agenda hanno promosso l’evento “Mare Climaticum Nostrum”, la prima conferenza sul clima nella regione Mediterranea, dal 5 all’8 ottobre prossimi alla Fortezza da Basso di Firenze, all’interno della Earth Technology Expo.

Era curioso che non esistesse un “Rapporto sul cambiamento climatico nel Mediterraneo e le sue conseguenze”, e che fossimo portati a pensare all’innalzamento dei mari come un problema lontano, delle piccole isole del Pacifico, o della siccità come di un tema degli sfortunati Stati africani. Invece ora abbiamo visto da vicino i rischi che incombono sulle nostre comunità, sui nostri sistemi economici e produttivi, sulle nostre famiglie: scarsità di acqua per scarsità di infrastrutture idriche, temperature elevate, eventi metereologici incontrollabili, aumento del cuneo salino nelle falde costiere, difficoltà per le filiere agricole come per le aree urbane, aumento della insicurezza alimentare e quindi delle diseguaglianze e delle migrazioni climatiche.

Serve avere un quadro complessivo e non frammentato delle conseguenze del “climate change” nel Mediterraneo, per questo abbiamo chiesto al Centro Euromediterraneo, eccellenza italiana nel settore, di curare un report scientifico che presenteremo a Firenze e ai tanti attori pubblici e privati di presentare soluzioni. Abbiamo l’ambizione di far diventare la Conferenza annuale e punto di riferimento per la definizione di politiche anche di cooperazione. Per questo organizzeremo workshop di approfondimento nei vari settori: acqua, agricoltura, energia, aree urbane, gestione delle emergenze. Siamo di fronte, infatti, a una sfida globale e locale comune, e mettere insieme risorse, idee ed esperienze tra Paesi è essenziale.

Il set di azioni è ampio. La politica, con coraggio e lungimiranza, deve saper guardare in faccia la realtà e non abbandonarsi al fatalismo né trovare scuse nella eccezionalità degli eventi. Occorre pianificare piani di intervento per la riduzione del danno, spendere le risorse stanziate per la cura del territorio, implementare una strategia locale di “adattamento” e resilienza, lanciare una grande campagna di educazione al rischio, “allenando” i cittadini ai comportamenti corretti durante le emergenze. Non c’è più una sponda nord e una sponda sud del Mediterraneo in questi casi. È banale dirlo ma siamo veramente tutti sulla stessa barca.

La nostra cooperazione già è attiva in Africa e nel bacino mediterraneo con progetti e investimenti per mitigare il cambiamento climatico, sostenere le comunità locali con azione di resilienza e adattamento, condividere le tecniche sul risparmio e la gestione dell’acqua, approntare centrali di prevenzione e gestione dei rischi con la tecnologia più avanzata. È questa la sfida che segna un bivio. Il tempo è tutto. Perché abbiamo circa 12 milioni di italiani, come dimostrano i report dell’Ispra, sotto la spada di Damocle delle frane (dal numero record di circa 628.000 sulle 750.000 europee, con le 2400 più pericolose messe sotto osservazione dalla Protezione Civile) e delle alluvioni, con aree fragili e a rischio nel 94% dei Comuni italiani, cioè quasi ovunque.

Ci diciamo un Paese di furbi ma se lo fossimo veramente eviteremmo di spendere ogni anno, dal dopoguerra ad oggi, miliardi di euro solo per riparare gli sconquassi delle catastrofi annunciate e cercheremmo di prevenirne i danni, riorganizzando lo Stato per la più grande opera pubblica sollecitata da sempre dalla Commissione Grandi Rischi della Protezione Civile. Si potrebbe allora cominciare col finanziare e completare le oltre 11 mila opere anti-dissesto idrogeologico del piano nazionale “Italiasicura”, l’unica struttura di missione nata per questo scopo che da Palazzo Chigi ha operato dal 2014 al 2018 con i governi Renzi e Gentiloni.

La politica e chi ci governerà tra poche settimane hanno l’obbligo di non perdere più tempo, di non cincischiare ma di prendere decisioni nell’interesse nazionale ispirate dall’urgenza e dalla necessità della prevenzione che necessariamente va oltre i tempi stretti di un mandato elettorale e della durata dei governi.

Anche la dura lezione delle Marche deve servire a farci cambiare registro. Serve un Big Bang culturale e operativo, tanto più urgente di fronte alla cruda verità di essere una penisola-bersaglio di tanti rischi. Serve uno scatto di responsabilità. Non quel temporeggiare e quel galleggiare incompatibili con l’accelerazione dei disastri annunciati.


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