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Meglio una Meloni forte di una debole, scrive Foreign Affairs

Di Matteo Turato

Un governo instabile che deve continuamente cercare il compromesso con gli alleati (Salvini in particolare) sarebbe una cattiva notizia per l’Italia. Ecco perché, se dovesse vincere il centrodestra, Nato, Unione Europea e investitori internazionali sarebbero più tutelati da una maggioranza solida targata Meloni, scrivono il prof. Jones (EUI) e l’analista Ardissino sulla rivista americana

Un governo di destra con una forte maggioranza parlamentare di Fratelli d’Italia offrirebbe stabilità e consentirebbe all’esecutivo di  governare l’Italia responsabilmente. Questo è il paradosso raccontato dal prof. Erik Jones, direttore dello Schuman Centre for Advanced Studies (EUI), e dall’analista Elettra Ardissino (Greenmantle) sulla rivista americana Foreign Affairs, non certo sospettabile di simpatie sovraniste. Il voto delle prossime elezioni politiche italiane viene spesso raccontato come decisivo per il futuro dell’Italia, dell’Unione Europea e della Nato.

Se vincesse le elezioni e venisse nominata presidente del consiglio, Giorgia Meloni diventerebbe la prima guida dell’esecutivo di estrema destra dopo Benito Mussolini. Certo, la leader oggi si è allontanata dalle sue origini e ha indossato gli abiti del conservatorismo europeo, ma il resto del suo partito non sembra voler abbandonare i chiari rimandi al fascismo. In realtà, spiega Jones, il pericolo maggiore per Bruxelles e per l’Alleanza Atlantica non deriva tanto da Meloni, ma dal suo alleato di coalizione, il segretario della Lega Matteo Salvini, per gli storici legami con Russia Unita di Putin, per l’euroscetticismo che portò al governo quattro anni fa, per il suo stile imprevedibile. Se Fratelli d’Italia dovesse vincere le elezioni con una maggioranza risicata si troverebbe a dover negoziare continuamente con la Lega, una situazione che metterebbe a dura prova la stabilità del neo-eletto governo in un momento così delicato.

Giorgia Meloni fondò Fratelli d’Italia nel 2012 proponendosi come partito di destra anti-establishment, con l’idea che Alleanza Nazionale, erede del partito neo-fascista Movimento Sociale Italiano, avesse tradito i valori originari allineandosi sulle posizioni moderate di Silvio Berlusconi. A dire il vero, all’epoca Fdi godeva di un consenso elettorale molto risicato, oscillando tra il due e il quattro per cento dei voti alle elezioni nazionali e a quelle europee. Nel 2018, poi, l’elettorato preferì premiare partiti come il Movimento 5 Stelle o la nuova Lega riformata da Salvini, che poi diedero vita al governo giallo-verde.

Quel governo fu una vera e propria messa alla prova dei due partiti, che si ritrovarono a dover fare compromessi continui, non solo tra di loro, ma tra le istanze populiste che promuovevano e le istituzioni di Bruxelles. Dovettero rinunciare alla nomina di Paolo Savona al ministero dell’Economia, fare concessioni sul bilancio alla Commissione Europea, e non completarono le riforme delle pensioni e del mercato del lavoro che avevano promesso. Insomma, si trasformarono da partiti anti-sistema a partiti di governo tradizionali. Nel 2019 la trasformazione continuò con il governo Pd-M5s e culminò con il sostegno sia del Movimento sia della Lega al governo di larghe intese del tecnocrate Mario Draghi. Quest’ultimo esecutivo, portando avanti un’agenda di governo centrista, filoeuropea e fortemente atlantista, ha rappresentato l’esatto opposto delle politiche che Salvini e i leader dei Cinque Stelle avevano sostenuto per anni.

Giorgia Meloni ha beneficiato enormemente del fatto di non essere entrata nella coalizione a sostegno del governo Draghi, scrive Foreign Affairs. Una scelta che le consente di presentarsi come una voce coerente dell’opposizione, raccogliendo l’enorme bacino del voto di protesta, almeno nei sondaggi. Ora che ha consolidato la propria leadership tra questi elettori, non le rimane che presentarsi come un primo ministro affidabile e aumentare la propria credibilità internazionale. Meloni sa che la propria sopravvivenza al governo sarà determinata in larga parte dall’accettazione dei mercati, e infatti si sta sforzando in ogni modo di apparire come una politica mainstream. Ha espresso supporto alla linea atlantista sulla guerra in Ucraina, e ha addirittura detto di avere cambiato posizione sull’euro sostenendo la necessità italiana di rimanere nell’eurozona.

Il suo alleato di coalizione Salvini è rimasto ambiguo, e soprattutto ha fatto proposte elettorali che si fondano sull’aumento della spesa pubblica e la riduzione delle tasse, un programma che se attuato si scontrerà con le regole fiscali europee come già successo nel 2018, ma in un panorama economico e geopolitico molto diverso (peggiore). Il rischio più grande è che i mercati perdano la fiducia nella possibilità italiana di ripagare il proprio debito già elevato, con la Banca Centrale Europea che ha già fatto sapere che non interverrà a sostegno di stati che non rispettano le linee fiscali europee.

La leader di Fratelli d’Italia dovrà bilanciare la propria posizione tra concessioni al suo alleato e la credibilità con i partner europei e gli investitori internazionali, senza compromettere l’unità del fronte occidentale sull’Ucraina, senza scatenare lotte sul bilancio comunitario.

Se Salvini ottenesse uno scarso risultato elettorale si ritroverebbe molto occupato a mantenere la propria posizione nel partito. Dentro alla sua Lega esistono ancora diverse anime. Quelle che il leader teme di più sono la frangia estrema della vecchia Lega Nord che chiede ancora secessionismo e vede di mal’occhio l’alleanza con un partito nazionalista come FdI, e l’area degli imprenditori che gli rimproverano di aver contribuito a far cadere il governo Draghi, che si inclinerà verso Meloni e Forza Italia.

Tutto sommato, se la coalizione di destra dovesse vincere le elezioni, concludono Jones e Ardissino, l’Italia potrà tirare un sospiro di sollievo davanti a una solida maggioranza parlamentare di Fratelli d’Italia.


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