La proposta del Piao – Piano Integrato di Attività ed Organizzazione – di integrare i vari piani che le amministrazioni sono chiamate a predisporre è stata un’occasione perduta: le semplificazioni annunciate non ci sono state, la trasparenza poteva essere rivisitata riposizionandola correttamente, ma così non è stato. L’opinione di Luciano Hinna, presidente del Consiglio sociale per le scienze sociali
È opinione diffusa che per sovrapposizione di norme e linee guida si sia creata nel tempo per le Pubbliche amministrazioni la burocrazia della trasparenza. Le nuove regole in materia di Piao – Piano Integrato di Attività ed Organizzazione – annunciate nel lontano giugno 2021 dal Dipartimento della Funzione Pubblica, con le quali si promettevano semplificazioni, abrogazioni e accorpamenti di adempimenti, al momento della loro emanazione, nel giugno 2022, hanno deluso chi si aspettava qualche semplificazione e novità importante anche in materia di trasparenza. La situazione di fatto è rimasta come prima: “opacità per confusione” come l’aveva apostrofata a suo tempo l’Autorità garante per la privacy.
Rimandando in dietro la moviola si può osservare che con la prima riforma Brunetta, il Decreto 150 del 2009, la trasparenza era entrata prepotentemente nel panorama delle amministrazioni italiane con il concetto di accessibilità totale e questo aveva positivamente stravolto il vecchio paradigma dell’accesso agli atti, concetto regolato dalla legge 241 del 1990 considerata giustamente la legge madre della trasparenza. La 241 garantiva l’accesso alle informazioni solo al soggetto che aveva un preciso diritto da tutelare, accesso che, a guardarlo oggi dopo trenta anni, può essere considerato ancora una concessione del “principe al suddito”. È solo però con l’accessibilità totale del 2009 che quelli che prima erano soggetti portatori di interessi si sono trasformati in soggetti portatori di diritti. Oggi tutti hanno il diritto di sapere e conoscere che cosa avviene nelle Pubbliche amministrazioni a prescindere se sono o meno titolari di un diritto. Una cosa molto importante passata quasi inosservata.
Dopo il 2009 sono stati messi a punto diversi strumenti quali i piani della trasparenza, l’accesso civico, fino ad arrivare in epoche più recenti al Foia – Freedom of Information Act – introdotto nel 2016 e considerato da molti una fuga in avanti se confrontato con quello degli altri Paesi. La maggior parte di questi strumenti, tuttavia, non ha mai funzionato pienamente per la combinazione di due atteggiamenti contrapposti: da un lato lo scarso interesse dei cittadini ai processi interni delle Pa e, dall’altro, una sorta di accanimento normativo del legislatore. Un proverbio arabo recita che puoi portare il cammello alla fonte, ma non puoi costringerlo a bere e così i nostri cittadini, non educati a vivere la trasparenza come un diritto, non hanno mai bevuto avidamente. La ragione è semplice: sono rimasti nel profondo ancora sudditi.
Chi invece ha bevuto alla fonte è stato il nostro legislatore, questo austero signore senza faccia che in tema di trasparenza ha spesso assunto il volto dell’Anac -Autorità Nazionale Anticorruzione. Tra il 2012 ed il 2016 in soli 4 anni sono stati emanati ben tredici documenti tra codici, determinazioni, linee guida e decreti, uno ogni tre mesi e mezzo: troppi per essere una cosa seria. Non solo, ma in un impeto di arroganza e onnipotenza istituzionale il nostro legislatore si è convinto di essere l’unico stakeholder interessato ai dati delle amministrazioni e ha deciso di mettere in norma ciò che dovrebbe servire come informazione alla società civile: centinaia di informazioni uguali per tutte le migliaia di amministrazioni differenti, senza neanche un’analisi per sondare le esigenze reali delle imprese e dei cittadini, confondendo così la trasparenza con gli obblighi di pubblicazione. Non contento, il nostro legislatore, ancora una volta con il volto dell’Anac, ha tentato di esportare la burocrazia della trasparenza in altri comparti allargando gli obblighi di pubblicazione anche ad enti assolutamente privati solo perché sottoposti alla vigilanza pubblica, come ad esempio le fondazioni bancarie e le casse di previdenza degli ordini professionali, pensando erroneamente che la semplice vigilanza pubblica potesse cambiare la loro natura privatistica peraltro sancita dalla nostra Suprema Corte. Sono stati necessari ricorsi al Tar e sentenze per contrastare questa impostazione centralista e far emergere ciò che era ovvio: la trasparenza gestita in maniera così rigida ha creato burocrazia e allo stesso tempo trasparenza sulla stessa.
La prima riforma Brunetta del 2009, invece, lasciava alla negoziazione tra le parti la definizione dei livelli e delle modalità di gestione della trasparenza affidando il tutto ai comportamenti etici degli enti e della società civile. Approccio corretto, dal momento che la trasparenza è un valore etico e come tale è destinato a mutare nel tempo e nello spazio; un elemento che non può essere assimilato all’obbligo di pubblicazione, ma affidato al concetto di accountability lasciando libero l’ente di scegliere tra i diversi strumenti, forma, modalità di comunicazione ed oggetti in funzione delle esigenze dei propri stakeholder.
Se prendiamo in prestito la definizione di etica di Lord Moulton, che la definisce come lo spazio del non esigibile per norma, ovvero l’insieme dei valori condivisi da una stessa comunità sociale in un determinato momento storico, va da sé che un livello di prescrizione normativa troppo ridondante e rigido anestetizza l’etica. Il legislatore poi deve prendere atto che in uno stesso momento storico possono coesistere sensibilità diverse a seconda degli enti e degli stakeholder ai quali essi rivolgono. Non si può normare l’etica, non sarebbe più etica, chi ci ha provato, sempre in tema di trasparenza come nel caso dell’uso del burka e del bikini in paesi lontani ed in epoche diverse, è stato spiazzato dai cambiamenti sociali.
La speranza era che con il Piao si fosse ricondotta la trasparenza nell’alveo etico previsto con la prima riforma Brunetta, ma non è stato così. L’errore commesso negli ultimi dieci anni e non corretto dal Piao è stato quello di violentare il concetto di trasparenza per leggerlo solo come strumento asservito alla lotta alla corruzione trascurandone tutte le altre valenze di marketing, di gestione dell’immagine, di informazione e comunicazione, di relazione con gli stakeholder e, non da ultimo, di evoluzione tecnologica che proprio in materia di trasparenza e comunicazione ha inciso fortemente. Forse è anche per questo che coloro che vivono al di fuori del castello, i cittadini, utilizzano pochissimo l’accesso civico mentre navigare tra i siti delle tante PA è diventato lo sport preferito di coloro che vivono all’interno del castello scatenando tra enti e persone la sindrome del guardone: la corsa a cercare i cv e gli stipendi dei colleghi.
Con un po’ di amarezza va preso atto che la trasparenza è diventata nel tempo un semplice obbligo di pubblicazione di tanti elementi, troppi: un ennesimo adempimento costoso, uguale per tutti gli enti che hanno però stakeholder differenti.
A questo punto le domande da porsi sono semplici: quale è l’utilità sociale della chiave di lettura della trasparenza intesa solo come obbligo di pubblicazione? Quali effetti ha avuto nel combattere la corruzione? Da quando l’Anac opera è aumentata o diminuita la corruzione sommersa? Non sappiamo a quanto ammonta la corruzione non ancora scoperta dalla magistratura e dalle forze dell’ordine, eppure riusciamo a stimare il lavoro nero, l’evasione fiscale l’impatto delle malattie gravi. Purtroppo, non abbiamo un modello di stima serio che sarebbe invece assai utile per scoprire se, anche grazie all’effetto delle norme sulla trasparenza, la corruzione sommersa è aumentata o è diminuita.
Il sospetto è che forse non vogliamo saperlo e qui la responsabilità dell’Anac, che di fatto gestisce il tema trasparenza, è forte: se un fenomeno lo si vuol gestire è necessario misurarlo, ma l’Anac non dispone ancora di un termometro che consenta di far sapere al Paese se le cure messe in atto, peraltro con un costo amministrativo rilevante. Dal momento che forse la febbre non è diminuita, qualcuno ha battezzato tutto questo come burocrazia dell’anticorruzione,
L’andamento della corruzione sommersa è un elemento della performance della stessa Anac, un indicatore del valore pubblico che crea, sulla quale andrebbe garantita la stessa trasparenza che si pretende dagli altri.
La conclusione è semplice, la proposta del Piao di integrare i vari piani che le amministrazioni sono chiamate a predisporre è stata un’occasione perduta: le semplificazioni annunciate non ci sono state, la trasparenza poteva essere rivisitata riposizionandola correttamente, ma così non è stato. E le nostre pubbliche amministrazioni continueranno a soffrire della burocrazia della trasparenza nella indifferenza ed inconsapevolezza della società civile.