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Niente sondaggi, siamo gonzi. Breve storia di un divieto anacronistico

Un divieto nato per non esporre gli elettori a possibili rilevazioni gonfiate o truccate, che però permette ai candidati di far rimbalzare per giorni i numeri diffusi nell’ultimo giorno di “libertà”. L’analisi di Domenico Giordano di Arcadia

Il divieto di pubblicazione e diffusione dei sondaggi negli ultimi quindici giorni antecedenti al voto è un limite di matrice fordista. Un divieto nella sostanza inapplicabile, perché eludibile a monte, definitivamente anacronistico e feudale in una società dove il messaggio non è più partorito dal grembo di media broadcasting.

Mentre la Tv e la carta stampata sono zombie che per sopravvivere devono mangiarsi le notizie che la Rete produce a ritmo incessante, l’Autorità per la Garanzie delle Comunicazioni ha diffuso l’altro giorno, come fa del resto oramai da più di vent’anni in occasione di ogni tornata l’elettorale, la nota che rinnova, qualora ci fossero dubbi, il divieto di pubblicazione e diffusione dei sondaggi sui mezzi di comunicazione di massa.

“A decorrere dalle ore 00:00 di sabato 10 settembre 2022 e fino alla chiusura dei seggi elettorali – precisa l’AgCom -, è vietato rendere pubblici o comunque diffondere con qualsiasi mezzo i risultati di sondaggi demoscopici sull’esito delle elezioni e sugli orientamenti politici e di voto degli elettori.  Tale divieto si estende – ai sensi dell’articolo 25 della delibera 299/22/CONS – anche alle manifestazioni di opinione e a quelle rilevazioni che, per modalità di realizzazione e diffusione, possono comunque influenzare l’elettorato.

La norma, come altre in materia elettorale e non solo, è nata in un mondo evaporato in cui l’infosfera mediatica era ancora dominata dai media tradizionali, con l’informazione che partiva da uno per andare incontaminata verso molti e con la necessità di ingabbiare e neutralizzare il potere mediatico del tycoon Berlusconi che nel 1994 aveva sconvolto la politica italiana. Quella stessa imposizione si è trasformata progressivamente in un pannicello caldo rispetto allo sviluppo inarrestabile e pervasivo della “platform society”, che ha polverizzato limiti e muri e monopoli dell’informazione che pensavamo incrollabili.

Il divieto, vale la pena ricordare, non si applica qualora è un “esponente politico a riportare dichiarazioni concernenti i risultati di un sondaggio, purché questi ultimi siano stati già resi noti nel periodo antecedente a quello del divieto”.

Ma è proprio questo specifico comma a rendere ridicolo il divieto di diffusione dei sondaggi. Così ieri Giorgia Meloni ha postato, infilandosi nelle pieghe della norma, su Facebook, Twitter e Instagram, i risultati dell’ultima rilevazione SWG in cui Fratelli d’Italia è quotata al 27% e il Partito Democratico al 20%.

Tutto perfettamente coerente con il dettato normativo, ma tutto perfettamente inutile se l’obiettivo del divieto rimane quello di non influenzare gli elettori.

Infatti, è pur vero che il post cita un dato demoscopico già pubblicato prima del blackout, ma in Rete e sulle piattaforme social ogni pubblicazione vive nel tempo e nello spazio di vita propria e autonoma, grazie alle interazioni degli utenti.

Il post pubblicato alle 9.18 di sabato 10 settembre ha ottenuto fino ad ora 1.464 condivisioni su Facebook e 490 retweet che ne hanno ulteriormente ampliato la diffusione già consistente se guardiamo alle interazioni che giornalmente gli account meloniani raccolgono.

I tre post poi hanno ottenuto complessivamente sulle diverse piattaforme oltre 7.200 mila commenti, senza voler censire i like che sfiorano, al momento, i 56 mila.

Ecco, sono sufficienti questi dati raccolti sono nelle prime ore di pubblicazione per avere la plastica certezza che il divieto è al più solo una cornice impolverata, uno strumento che ottiene l’effetto contrario a quello desiderato, ovvero finisce per diffondere informazioni in modo distorto piuttosto che fornire agli elettori notizie certe, aggiornate e di prima mano.



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