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I colpi di Kiev e la reazione di Mosca. Colloquio con Andrea Gilli

La guerra in Ucraina cambia carattere. Le dimensioni strategiche, politiche e tattiche dell’operazione e le reazioni di una Russia in difficoltà. Il peso delle sanzioni, dai carri armati al cibo in scatola, la minaccia atomica e gli altri fronti che si aprono in Asia centrale. Ne abbiamo discusso con Andrea Gilli del Nato Defense College

L’attacco lanciato da Kiev per riprendere il controllo delle zone occupate da Mosca ha spinto le truppe russe ad arretrare, perdendo il controllo di centri importanti come le aree di Kharkiv, Kupyansk e Izium, conquistate dopo mesi di combattimenti. Lo Stato Maggiore russo ha dovuto ammettere di aver ordinato una “ritirata tattica”, anche se in realtà quella dell’esercito russo appare come una fuga disordinata. Vediamo cosa sta succedendo nel Paese e quali sono gli scenari che dobbiamo aspettarci.

La controffensiva ucraina sembra raccogliere un discreto successo. Qual è l’attuale situazione del fronte e cosa dobbiamo aspettarci nei prossimi mesi?

Le considerazioni strategiche da fare sono di tre tipi. Primo, a causa dell’avvicinarsi dell’inverno gli ucraini hanno qualche settimana di tempo per continuare la controffensiva, prima che le temperature si abbassino notevolmente e il terreno diventi fangoso. Condizioni ambientali avverse renderebbero molto difficili l’esecuzione delle operazioni e anche la logistica. In secondo luogo, da un punto di vista strategico-politico, la controffensiva è utile a Kiev anche per mantenere alta l’attenzione occidentale, anche in considerazione dell’attuale crisi energetica. In terzo luogo, l’obiettivo di lungo termine dichiarato è ricacciare indietro i russi, fuori dall’Ucraina. L’obiettivo a medio termine, a mio avviso, consiste nell’ottenere risultati tattico-operativi.

A cosa si riferisce?

Innanzitutto riuscire davvero a rompere le posizioni russe, e dunque impedire che il Donbass possa essere utilizzato come base per lanciare operazioni nell’area di Kherson e in Crimea. Poi la questione importante è demoralizzare le truppe russe. Stiamo vedendo in questi giorni l’eco mediatica che viene assegnata dai media ucraini agli episodi di ritirate di massa del nemico. Che siano veri o meno, questi episodi vengono rilanciati il più possibile per fare arrivare un chiaro messaggio ai russi: non arriveranno più rifornimenti, cibo, carburante, nuovi battaglioni per il cambio; arrendetevi e salvate la pelle. Ulteriore obiettivo tattico è continuare a spingere sul campo per facilitare i primi due obiettivi, ma anche per un’altra ragione. La guerra moderna viene combattuta con linee cosiddette flessibili. Si schierano più linee una dietro l’altra in maniera non parallela, di modo che se il nemico penetra da una parte si trova ad affrontare ulteriori difese sui propri fianchi o addirittura da terga. Se Kiev riuscisse a continuare a spingere contro le linee russe impedirebbe la loro riorganizzazione difensiva. Questi elementi potrebbero portare a una rapida fine della guerra? E’ molto difficile dirlo. Non è possibile escludere totalmente un collasso delle forze armate di Mosca, ma ci sono diversi fattori che non conosciamo, quale ad esempio la tenuta del morale russo. Di sicuro la storia militare ci insegna che se il morale di un esercito crolla rapidamente, quell’esercito andrà facilmente in rotta.

Putin non ha voluto dichiarare lo stato di mobilitazione totale. Infatti in Ucraina stanno combattendo gruppi indipendentisti locali e diversi contingenti definibili come mercenari.

Questo è vero, ma non dimentichiamo che parte delle truppe iniziali, unità regolari dell’esercito russo, schierate al confine prima dell’intervento sono disponibili. La decisione di dichiarare ufficialmente guerra all’Ucraina è, a mio avviso, improbabile perché i risultati avrebbero un costo politico enorme in patria. L’aspetto interessante sul tipo di combattenti è che dal lato ucraino abbiamo assistito in queste settimane ad attacchi partigiani nelle zone occupate dai russi. Dunque Mosca sta ora affrontando tre campagne differenti. In primo luogo vi è una guerra di attrito, la guerra lenta che prosegue da mesi sul fronte Kharkiv-Cherson. Tra l’altro è interessante notare come il fronte originario di più di mille chilometri sia ora ridotto a settecento, ottocento chilometri. In secondo luogo esiste una guerra di manovra, quella che l’Ucraina sta ora portando avanti per sfondare il fronte su punti specifici. In terzo luogo si assiste ora a  una guerra di insorgenza partigiana dietro le linee russe che aumenta notevolmente la complessità dell’intervento. Se Kiev riuscisse a rifornire in qualche modo questi gruppi, i russi si troverebbero ad affrontare non solo l’artiglieria di lungo raggio, ma anche attentati, autobombe e sabotaggi vari. Abbiamo visto in Afghanistan e in Iraq quanto sia efficace una guerra di insorgenza, che permette con una spesa relativamente minima di fare enormi danni su obiettivi indifesi, oltre all’impatto psicologico da non sottovalutare.

Si continua a discutere molto sull’efficacia delle sanzioni, anche in relazione agli alti prezzi dell’energia che per molti sono un modo per la Russia di parare i colpi economici che riceve.

Di certo l’economia russa ha sofferto molto meno di quanto previsto, ma ha comunque subito una battuta di arresto notevole. I dati variano a seconda delle fonti, ma siamo comunque nell’ordine del meno cinque, meno sei per cento del PIL. Nelle ultime settimane i prezzi del gas hanno iniziato a scendere e ciò ha portato a un deficit del budget russo, eliminando l’avanzo di bilancio accumulato. Lo spiega molto bene un recente articolo del Financial Times. Dobbiamo poi ricordarci che l’effetto delle sanzioni non è immediato, anche se è comunque possibile osservarne gli effetti sugli aspetti logistico-operativi della guerra. Per fare qualche esempio, un carro armato, esattamente come un’utilitaria, ha bisogno di manutenzione, dai cingoli alla torretta all’olio per il motore, eccetera. Ulteriore esempio non prettamente militare? Crolla un ponte, serve cemento, serve la betoniera, servono le gomme per la betoniera. Oppure il cibo in scatola, che ha bisogno di conservanti. La Russia non produce quasi nulla di queste cose e quando lo fa utilizza tecnologia occidentale, come ad esempio i macchinari per tagliare l’acciaio, fondamentali per qualunque economia industriale avanzata. L’esempio più lampante sull’efficacia delle sanzioni è che un paese come la Federazione Russa, teoricamente tra i primi produttori di armi al mondo, debba acquistare munizioni di artiglieria dalla Corea del Nord e droni dall’Iran, Paesi tecnologicamente indietro di cinquant’anni.

Si è spesso parlato del rischio che si ricorresse all’uso dell’arsenale atomico, cosa su cui Mosca ha giocato molto.

Paventare l’uso di armi nucleari per costringere gli avversari ad accettare certe posizioni negoziali: la Russia utilizza questa strategia da almeno quindici anni. Ha funzionato piuttosto bene fino allo scoppio di questa guerra, sia perché c’è un limite a quanto si può cedere al ricatto, sia perché si è visto quanto il potere militare russo sia molto inferiore alle aspettative. In questo momento non è realistico che Mosca lanci testate atomiche solamente perché sta subendo una controffensiva, ma soprattutto questo è un momento in cui la posizione di Putin appare indebolita all’interno dell’élite. Chi pensa a un possibile colpo  di coda del dittatore dovrebbe ricordare che anche nelle autocrazie il potere è gestito da più persone.

Ieri l’Azerbaijan ha attaccato l’Armenia, da sempre protetta da Mosca. Quali ricadute ha il conflitto in Ucraina sulle altre aree di interesse strategico?

Una delle implicazioni della guerra è proprio questa: più la Russia è impegnata sul fronte, più le sue risorse diminuiscono, insieme alla reputazione militare, intesa come capacità di intervenire in altre zone. Pensiamo ad esempio al recente intervento per ristabilire l’ordine in Kazakistan, o alle operazioni in corso in Siria, in Libia o in Mali. Quale affidamento possono fare su Mosca i suoi partner? Naturalmente ogni scenario va affrontato singolarmente con le proprie peculiarità, ma il caso dell’Azerbaijan è sicuramente emblematico. Tutto ciò porterà a un cambio di regime? Forse no, ma per il governo di Putin appare quanto mai opportuno ricalibrare le priorità politiche e strategiche alla luce dei recenti sviluppi.

Le opinioni espresse in questa intervista sono personali e non riflettono la posizione della Nato o del Nato Defense College


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