La storia di “Valeria si sposa”, film sulle spose ucraine e i matrimoni combinati, è stato presentato alla 79° Mostra del cinema di Venezia. Chiara Buoncristiani ha intervistato per Formiche.net la regista Michal Vinik: “Tutte le relazioni sono affari, ma non molte sono eque”
Christina è una donna ucraina trasferitasi in Israele grazie a un accordo del tipo “sposa su ordinazione”. Rispetto alla sua vita in Ucraina, la vita in Israele sembra fantastica. Anche Michael, suo marito israeliano, è felice di aver trovato lei. Così tanto che avvia un’attività di selezione di future spose ucraine per israeliani. Ma il prossimo matrimonio combinato riguarda la sorella minore di Christina, Valeria. Tuttavia, Valeria è diversa dalla sorella maggiore. L’intero delicato equilibrio crolla quando Valeria pronuncia il suo “no” rispetto all’accordo: emerge così una realtà volutamente negata, che svela la brutalità del potere nelle relazioni.
Questa la storia di “Valeria si sposa”, film presentato alla 79° Mostra del cinema di Venezia. Quando incontro la regista Michal Vinik la prima domanda la pone lei a me.
“Allora, che collegamenti ha trovato nel film? Sono curiosa…”, mi chiede ribaltando i ruoli di potere di chi-fa-domanda-a-chi. La mia scaletta di domande preconfezionate crolla e le faccio subito la domanda che volevo lasciare per il finale.
Valeria non cede. Il suo “no” rispetto al matrimonio combinato risuona incredibilmente con il “no” dell’Ucraina alle pretese russe. Un caso?
Il film è stato girato prima dell’inizio della guerra. Ma a posteriori mi accorgo che assume un nuovo significato, che però era già racchiuso nel film. Tutte le relazioni, che siano intime o tra Stati, sono fatte degli stessi ingredienti. Sono accordi. Il punto è vedere se il patto conviene a entrambi, cosa si perde e cosa si guadagna.
Fino a che punto un patto può essere equo, se uno dei due soggetti ha molto più potere dell’altro?
Nel caso dell’immigrazione di Valeria in un Paese molto più ricco di quello da cui proviene, come nei rapporti tra Palestina e Israele, tra Ucraina e Russia i diritti di chi ha di meno rischiano di perdersi, anche quando c’è un accordo…
Solo alla fine del film capiamo che il futuro marito paga in denaro la sposa. Questo tipo di transazioni cosa condividono con il matrimonio?
Molto, perché ovunque capita che la parte più forte paga il biglietto e consuma la merce. Mi sono sentita però in dovere anche di difendere la posizione maschile. Mi sentivo in colpa, ma anche quella posizione può essere dolorosa. Nel film, infatti mostro la sofferenza del futuro marito, che fa di tutto per farsi amare, ma non sa come farlo.
Valeria dice “no” perché intuisce l’infelicità di cui sua sorella Christina non vuole prendere atto?
Il meccanismo dell’accordo la spaventa perché è ancora in un’età in cui non si è ancora pronti per compromettere i propri sogni, i sentimenti. Sua sorella è diversa, ma è vero che poi la scelta di Valeria cambia anche la visione di Christina e la mette in crisi.
Ma possono esistere sono relazioni “pure”, senza questa sorta di transazioni di potere?
Il film porta un esempio estremo di squilibrio ma ogni relazione è sbilanciata. C’è sempre un piccolo nucleo che riporta a questo. Se ti guardi allo specchio lo ammetti”.
Come dire, nelle relazioni non può esistere il “match” perfetto…
Succede tra uomini e donne, ma anche tra donne e donne, tra uomini e uomini.
Un’ultima domanda. Quando diciamo “no” a quello che abbiamo di fronte, stiamo in realtà proteggendo qualcosa che una parte di noi sogna avverrà in un altro luogo, in un altro tempo. Tanti matrimoni, anche quelli non combinati, falliscono per questo motivo. Non reggono il confronto con il sogno. Non pensa che il film protegga questo ideale romantico?
Questa è una bella domanda. Ma ho provato a fare un film per porre una questione, non per dare la risposta. Gli accordi tra persone riguardano non solo i soldi, ma quello che è consentito fare e non fare nella relazione. Poi c’è la parte romantica. Ma io forse perché sono ancora single, questa risposta ancora la cerco.
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Il film dura appena sessantaquattro minuti e di questo ringraziamo il regista israeliano Michal Vinik (Working Woman, tra gli altri), che ha tagliato al massimo la pellicola in modo da renderla un concentrato, senza lasciare sbavature.
Si potrebbe definirlo thriller, Valeria Mithatenet?
A piccoli tratti.
Dramma psicologico, metafora di chi non si accontenta e di chi non rischia. In un punto particolare, con il salire della tensione domestica cresce anche quella politica e le differenze di etnia emergono in un contrasto deciso ma rispettoso.
Valeria Mithatenet è una piccola chicca veneziana e che si può riassumere in un’unica tematica fondamentale: i diritti di chi ha meno.
Qui è la donna ad essere al centro della questione, ma in un certo senso è l’essere umano. Vista da una prospettiva più ampia, il susseguirsi di presa di coscienza della situazione da parte di Valeria – che avviene in appena quattro ore circa -, diventa la presa di coscienza sul tema della sottomissione.
Spesso nelle relazioni si parla di sottomissione della donna all’uomo, ma può avvenire il contrario come dimostra una certa questione chiave nel film.
Valeria Mithatenet è un film costruito tecnicamente molto bene, con una luce che farà impazzire (in senso positivo) gli appassionati di fotografia.
Da vedere assolutamente, sperando venga distribuito anche in qualche cinema italiano