La politica italiana è soggetta a molte variabili, non sempre comprensibili dagli osservatori internazionali. Ma la sfida per la coalizione al governo non è tanto quella di aggiustare la “forma” della sua azione in Europa ma di trovare una sua “sostanza”. L’analisi di Federico Castiglioni, ricercatore all’Istituto affari internazionali e docente di governance europea all’Università Orientale di Napoli
Anche se non ci sono mai tempi facili per arrivare al governo in Italia, questa congiuntura storica, fatta di guerra, strascichi di una pandemia, impennata dei costi dell’energia e tensioni internazionali, non si vedeva da tempo. L’Unione europea si trova al centro di quest’ondata di crisi e l’Italia, ancora una volta, è uno degli Stati membri più esposti. Molti osservatori internazionali si sono chiesti e si stanno chiedendo se questo sia il momento giusto per un cambio di governo nel nostro paese, soprattutto considerando la “stabilità” garantita da Mario Draghi e l’incertezza di una figura politica quasi sconosciuta come quella di Giorgia Meloni. L’impatto narrativo iniziale, legato al ritorno del fascismo, ha attirato un’attenzione mediatica molto rara per delle elezioni italiane e alimentato speculazioni su cosa possa significare questo risultato per la tenuta delle istituzioni euro-atlantiche.La conseguenza è che la nuova coalizione di governo sembra già essere circondata da un clima di sospetto internazionale, riuscendo nel difficile compito di scontentare – per ragioni diverse ma in egual misura – Bruxelles, Pechino e Washington.
Questo allarmismo per il collocamento internazionale dell’Italia e anche per il futuro della nostra democrazia sta trovando i suoi maggiori elementi rassicuratori e calmieranti proprio a Roma e presso ambienti che non hanno particolare ragione di simpatizzare per il nuovo governo. I segnali delle ultime settimane sono stati molti, dalle dichiarazioni del Presidente della Repubblica in occasione del caso Laurence Boone alle interviste internazionali di membri dell’opposizione (si veda Matteo Renzi alla CNN). In generale, la cautela del momento è necessaria non solo per la tenuta del paese, ma anche per l’oggettiva difficoltà dei tre membri della coalizione vincente a trovare una quadra post-elettorale. Questo ombrello è ovviamente transitorio. Sul medio periodo sarà la coalizione di centrodestra e soprattutto Fratelli d’Italia, suo partito trainante, a dover trovare una propria autorevolezza, innanzitutto europea, supportata da fatti, ossia da un superamento delle proprie contraddizioni.
La prima di queste contraddizioni è ovviamente il rapporto con l’Unione Europea. Il partito di Meloni, a differenza della Lega, ha una proiezione ideale di Europa molto radicata nella sua cultura politica, ma anche molto lontana dalla concretizzazione pratica del progetto europeo. Questo retroterra culturale, quando trasformato in azione politica, rende difficile trovare simpatizzanti a Bruxelles ovviamente, ma anche alleati presso molti partiti sovranisti che hanno un carattere culturalmente euroscettico ed eminentemente nazionalista (elemento spesso sottovalutato). Sembra che in un primo momento per risolvere questa contraddizione Fratelli d’Italia si affiderà al sostegno esterno di Forza Italia e del Partito popolare europeo, ma sul lungo periodo e alla vigilia di importanti riforme istituzionali dell’Unione europea che potrebbero profilarsi all’orizzonte il (già traballante?) sostegno dei popolari si rivelerà solo un temporaneo escamotage. Prima o poi sarà Meloni a doversi esprimere su temi caldi come la Comunità politica europea, l’allargamento ai Balcani, una possibile riforma delle competenze di Commissione o Consiglio o su nuovi strumenti di difesa comune. E le questioni sul tavolo la potrebbero portare ad un’incomprensione con alcuni suoi alleati storici come i governi del Gruppo Visegrád (o ciò che ne rimane dopo il conflitto ucraino). Proprio la vicinanza a Budapest e Varsavia potrebbe essere la seconda scomoda contraddizione per Fratelli d’Italia, in un cortocircuito politico-istituzionale che potrebbe vedere le alleanze europee del partito in contraddizione con l’interesse nazionale. In fondo, questa tendenza è stata già visibile in occasione del voto al Parlamento europeo sull’Ungheria il 15 settembre scorso, e le difficoltà che ha portato con sé sono destinate a peggiorare fino all’insostenibile.
L’Italia, stato fondatore dell’Unione europea e membro di punta dell’eurozona, non può permettersi di creare una sua (nuova) politica europea esclusiva con i governi centro-orientali a detrimento del rapporto (storico) con Francia e Germania, considerando la quasi totale assenza di interessi comuni con i primi e la sostanziale interdipendenza socioeconomica con i secondi. Né è pensabile che il governo italiano guidi “un fronte euroscettico” anche qualora volesse, data l’oggettiva penuria di alleati disposta a seguirla, i danni che questo comporterebbe per titoli di Stato e Pnrr e l’assenza a Bruxelles del Regno Unito, unico potenziale alleato in questa battaglia. D’altro canto, anche un possibile ostruzionismo del nuovo governo su singoli dossier – pensiamo all’immigrazione – risulterà secondario se letto alla luce di altri temi prioritari di cui l’Unione Europea si sta occupando, primo fra tutti il conflitto ucraino. È infatti proprio sulla guerra in Ucraina che si giocherà una delle partite europee più importanti per il prossimo esecutivo, ma al contempo è proprio su questo tema che si rischia l’ultima e la più grave contraddizione. A oggi, il sostegno italiano a Kiev e l’allineamento all’UE sembra ancorato principalmente all’atlantismo di Fratelli d’Italia e alla sua fase di “istituzionalizzazione” europea. Meloni può vantarsi di non avere con Mosca i legami politici e personali di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi, ma nella partita di gasdotti e sanzioni che si sta disputando oggi l’Italia non è un player secondario e il suo governo avrà indubbiamente un ruolo da giocare (a differenza che sul piano militare). Il rischio concreto è che l’intransigente posizionamento del nuovo premier porterà tensioni all’interno dell’esecutivo, aprendo la porta a compromessi e aperture che saranno inevitabilmente letti con il consueto sospetto.
L’accusa di fascismo è, in definitiva, il minore dei problemi di Meloni. In fondo, giova ricordarlo, anche Berlusconi venne portato sul banco degli imputati nel 1994 dall’americano New York Times e dal francese Le Monde per aver sdoganato, da liberale, i “fascisti” di Alleanza Nazionale al governo. Esattamente sedici anni dopo, era Berlusconi a essere accusato di autoritarismo, mentre Gianfranco Fini era chiamato dagli stessi giornali statista ed era l’unico a poter vantare un serio rapporto con Bruxelles e Washington. Senza scomodare esempi più recenti, come la parabola populista del Movimento 5 Stelle, è chiaro che la politica italiana è soggetta a molte variabili, non sempre comprensibili dagli osservatori internazionali. La sfida per la coalizione al governo non è tanto quella di aggiustare la “forma” della sua azione in Europa ma di trovare una sua “sostanza”. Questa “sostanza” deve riuscire a trasmettere un’idea di sistema-paese che riesca ad avere una certa continuità di politica estera e magari, ma questa potrebbe essere un’ambizione eccessiva, a proporre un suo modello d’Europa che miri ad un rafforzamento delle istituzioni per navigare le pericolose acque delle crisi contemporanee. Prendendo a esempio un riferimento caro al partito di Meloni quale il libro “La storia infinita”, Fratelli d’Italia in questa si trova a essere meno “Atreiu” e più “Bastiano”. Il primo, guerriero ideale che combatte per la sua terra, è il difensore per eccellenza di Fantasìa, ma il suo potere è limitato dall’essere un personaggio di un mondo immaginario. Bastiano, il protagonista della serie, appartiene invece al nostro mondo e viene calato in una realtà letteraria, riuscendo a vincere la malvagità per la differente consapevolezza che gli permette di coniugare le regole di Fantasìa con i dettami della realtà. Il risultato di questo sforzo non è sempre dei migliori, ma almeno il libro ha una buona fine.