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La mossa del cavallo per scongiurare la minaccia nucleare. Scrive Alli

La minaccia di un conflitto nucleare, purtroppo mai così vicino dopo Hiroshima e Nagasaki, rende ancora più centrale il ruolo di Pechino e sempre più probabile una sua netta presa di distanza da Mosca. Kissinger ha ripetutamente affermato la necessità di dividere la Cina dalla Russia: oggi questo sta avvenendo nei fatti proprio per colpa dello stesso Putin. L’opinione di Paolo Alli, ex presidente dell’Assemblea Parlamentare della Nato

Il giorno successivo all’inizio della guerra in Ucraina scrivevo: “a Putin serve una guerra-lampo, perché non può permettersi di lasciare 200.000 uomini sul terreno a lungo, i costi sarebbero troppo alti anche per lui…”. Non sono un esperto di tattica militare, ma bastava un po’ di buon senso per formulare quel giudizio, e la riconquista da parte delle forze armate ucraine di parti importanti di territorio lo sta dimostrando.

Il 15 maggio mettevo poi in evidenza come il ruolo della Cina fosse assai più importante di quanto potesse apparire ad una osservazione superficiale. Indicavo tre elementi di preoccupazione da parte di Xi Jinping: il rischio di una marginalizzazione nei rapporti commerciali con l’occidente, il rischio di fallimento del progetto Belt and Road – la nuova Via della Seta – e le ricadute negative a livello di immagine internazionale per il persistente sostegno ad una azione militare sempre più criticata a livello mondiale.

Oggi tutto ciò sembra confermarsi, dopo che nel vertice di Samarcanda Pechino ha mostrato un atteggiamento di freddezza nei confronti di Mosca e una netta presa di posizione contro l’ipotesi di referendum nel Donbass, in nome del rispetto della integrità territoriale dell’Ucraina. Può far sorridere sentire la Cina parlare di rispetto della integrità territoriale, tuttavia si tratta di una affermazione di estrema importanza, in quanto ribadisce uno dei pilastri del diritto internazionale, lasciando sperare che Pechino lo consideri tale anche nel “nuovo ordine mondiale” che vorrebbe costruire. Una presa di posizione che, se confermata dai fatti, porterà ad un rafforzamento del multilateralismo e che, come tale, deve essere vista con favore dall’intero occidente.

Oltre alla Cina, altri grandi players stanno giocando un ruolo importante.

Erdogan  ha addirittura detto che la Crimea deve ritornare con l’Ucraina: questa affermazione, alla quale il Cremlino non ha peraltro reagito (chissà cosa sarebbe accaduto se l’avessero fatta gli Usa o la Ue), conferma che il Presidente turco è uno dei pochi leader mondiali in grado di dialogare alla pari con Putin.

Il primo ministro indiano Narendra Modi, che in un primo momento aveva fatto tenere al suo Paese una posizione molto prudente, fino a sembrare equivoca (ragione principale le armi e il petrolio russi da cui il suo Paese dipende), è uscito allo scoperto con parole chiare contro la guerra in Ucraina. Non può sfuggire il fatto che nei mesi scorsi i contatti del premier indiano con Paesi occidentali si sono intensificati, a partire dalla visita di Ursula Von der Leyen in India nello scorso aprile, seguita dalla missione in maggio dello stesso Modi in Europa, caratterizzata dall’incontro con i leader di Germania, Danimarca, Islanda, Norvegia, Svezia e Finlandia: 4 paesi della Nato e due che si apprestano a diventarne membri. Sono elementi che dimostrano come l’India intenda mantenere un rapporto organico e aperto con Europa e occidente.

Il risultato di questo complesso scenario è l’evidente isolamento dello Zar. Per non perdere la faccia, Putin ha, come di consueto, alzato la posta, in una gravissima escalation: i referendum-farsa nei territori occupati, la successiva dichiarazione della loro “annessione”, le ripetute minacce di ricorrere alle armi nucleari, la mobilitazione di 300.000 riservisti (con conseguente fuga di massa di cittadini russi). Tutti segnali che la situazione in casa moscovita si è fatta veramente difficile.

Ma per comprendere ancora meglio la vera portata di queste difficoltà, bisogna allargare la prospettiva al quadro di crescente instabilità ai confini meridionali della Russia: il conflitto di confine tra Tajikistan e Kyrgyzstan; le tensioni in Kasakhstan, dove il presidente Tokayev si è rifiutato di riconoscere le repubbliche del Donbass e sta dando segnali di allontanamento dalla sfera di influenza di Mosca; l’ennesimo riaccendersi del conflitto in Nagorno-Karabakh; le richieste della Georgia di accelerare la procedura di adesione alla Ue e alla Nato. Tutti questi fronti, finora controllati e in qualche modo gestiti o persino pilotati da Putin, oggi costituiscono per lui nuovi problemi, così come il persistere del dispendioso impegno russo in Siria e nel nord Africa e la necessità di presidiare l’infinito confine dell’Artico, dove si sta verificando una contrapposizione geopolitica che segnerà i prossimi decenni.

Questo quadro estremamente complesso alimenta il timore che lo Zar possa realmente ricorrere all’impiego delle armi nucleari tattiche per cercare di chiudere la “pratica” ucraina al più presto possibile riguadagnando, al tempo stesso, la fiducia del proprio popolo con una vittoria tanto propagandata quanto lontana dalla realtà.

La minaccia di un conflitto nucleare, purtroppo mai così vicino dopo Hiroshima e Nagasaki, rende ancora più centrale il ruolo di Pechino e sempre più probabile una sua netta presa di distanza da Mosca. Kissinger ha ripetutamente affermato la necessità di dividere la Cina dalla Russia: oggi questo sta avvenendo nei fatti proprio per colpa dello stesso Putin. Una felix culpa, per l’Occidente e, in fondo, per gli equilibri globali, che potrebbero vedere una de-escalation nel pericoloso processo di contrapposizione tra democrazie e autocrazie innescatosi con l’inizio della guerra in Ucraina. Guerra che dunque dimostra sempre più la sua vera dimensione di conflitto mondiale.

A questo punto, per capitalizzare a favore dell’Occidente la situazione di debolezza di Putin, allargando ulteriormente la crepa apertasi nel rapporto con Xi Jinping, occorrerebbe che Washington e l’Europa dessero segnali di distensione nei confronti di Pechino. Gli Usa anche aprendo un tavolo sul tema del Quad, l’alleanza politico-militare con Giappone, India e Australia, recentemente allargata, di fatto, a Corea del Sud, Vietnam e Nuova Zelanda, che viene già individuata come la versione orientale della Nato in chiave anti-cinese.

Questa sarebbe la “mossa del cavallo” che, isolando del tutto Mosca, decreterebbe la probabile fine di Putin.


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