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Perché la classe dirigente è in crisi. La riflessione di D’Ambrosio

Gli esperti discutono se leader si nasce o si diventa. Forse entrambi. Per comandare ci vogliono delle capacità umane, costitutive del proprio temperamento

È un problema più grande di noi, forse. E non è un problema solo nostro: in Italia come nel Regno Unito, nei Paesi in via di sviluppo come nelle democrazie più longeve, manca una classe dirigente. Oppure se c’è spesso presenta seri deficit. Per quanto i riferimenti più ovvi e immediati possano essere quelli politici, si deve precisare e ricordare che la crisi supera i confini politici e investe un po’ le istituzioni nella loro interezza. All’interno di una famiglia per il ruolo di responsabilità genitoriale, come in diversi ambienti di lavoro, associazioni culturali e sportive, comunità di credenti, amministrazioni pubbliche, aziende, organizzazioni nazionali e internazionali si ritrovano con sempre più frequenza persone che esercitano un potere senza la formazione e i mezzi necessari per una buona e giusta conduzione.

Non è un problema nuovo, anzi. Ma è problema che ci trasciniamo da anni, in particolare dagli anni ’70 in poi. Le cause di questa crisi sono da ricercarsi in molteplici fattori, che evidenziano come non si tratta della crisi di alcuni ruoli specifici di potere, ma di una situazione problematica dal punto di vista etico e culturale. Tentando di fare sintesi, si può affermare che già dalla fine degli anni ’70 si sono manifestate delle congetture di notevole rilievo, che hanno trasformato notevolmente il tessuto sociale, culturale, religioso, politico ed economico, determinando anche, tra i tanti effetti, una crisi della classe dirigente.

Questa eredità storica, più negativa che positiva, ha colpito e colpisce tutte le istituzioni, laiche o religiose che siano. La rapida sintesi certamente non rende ragione della complessità, sia dal punto di vista storico, che sociale, tuttavia serve a delineare il contesto, in cui cresce e si fa strada una classe dirigente, che, a prescindere dalle realtà, in cui esercita il proprio potere, condivide alcuni e precisi atteggiamenti.

Ovviamente alla radice di questi atteggiamenti ci sono quei lati oscuri, tipici della condizione umana generale. Il punto di partenza è, quindi, l’educazione al ben vivere, al vivere virtuoso in una comunità, che è dovere per tutti e in tutti i contesti. L’educazione – intesa come la greca paideía, che coniuga conoscenza e prassi – è il problema centrale di ogni vita comunitaria, inclusa la prassi di potere. L’educazione non è un problema di meriti ma di fatica per portare frutti con le proprie capacità. Nel linguaggio aristotelico ogni comunità è ispirata da un ordine e mira al vivere bene (eû zên).

Essa può vivere bene solo se l’educazione, impartita o conseguita da se stessi, porta i cittadini all’acquisizione e alla pratica delle virtù (Politica). E dove si imparano il ben vivere e la vita virtuosa? Non certo si imparano sui social (per quanto utili a connettere persone); non certo su citazioni solenni di frasi ad effetto (anche nei luoghi istituzionali); non certo nell’esaltazione mitica delle figure del passato (senza muovere un dito per imitarli nel quotidiano). E ancor meno non si imparano nella ricerca sfrenata del consenso, nell’anelito al potere come questione di vita o di morte e nell’accrescere il proprio tornaconto in termini di denaro e utilità varie.

Gli esperti discutono se leader si nasce o si diventa. Forse entrambi. Per comandare ci voglio delle capacità umane, costitutive del proprio temperamento (tra le maggiori: intelligenza, pazienza, capacità di ascolto, intuito sulle persone e abilità nel tessere relazioni). Esse sono un dono che si ha, per natura o per grazia (per chi ci crede). Ma poi su questi doni vanno innestati percorsi seri di studio, formazione, esperienze e verifiche. Altrimenti avremo sempre chi arriva a piccole o grandi responsabilità perché è il parente di…, o l’amante di… o il raccomandato da… E una volta arrivati si può promettere mare e monti ma le proprie capacità non si inventano né si possono fingere; prima o poi il “potere svela la persona”, come insegna Aristotele.

Eppure una classe dirigente (o pronta per essere tale), in piccola quantità ma con alte qualità, esiste nel nostro Paese. Spesso non raggiunge il potere perché chi comanda vive nell’invidia e nella corruzione, si autoreplica, cioè si attornia o designa a succedere chi è come lui o lei o anche peggio. Un esempio per tutti: l’ignobile legge elettorale vigente che privilegia, per lo più, non chi sa comandare ma solo chi ha protettori in alto.

Per riflettere ancora potrebbe aiutare una pagina della Fratelli tutti (n. 159) in cui papa Francesco, soffermandosi sul fenomeno del populismo, spiega che il leader negativo è colui che cerca di “di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e della legalità”. Il nostro impegno personale, sociale ed ecclesiale, invece, deve tendere, come dice il papa, a formare “capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società. Il servizio che prestano, aggregando e guidando, può essere la base per un progetto duraturo di trasformazione e di crescita, che implica anche la capacità di cedere il posto ad altri nella ricerca del bene comune”.

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