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L’effetto Draghi e la conquista del voto. Scrive Ceri

Dalle urne è uscito fuori un effetto perverso, l’“effetto Draghi”. Se è difficile stimare quanto abbia influito sul risultato, non lo è presumere in quale modo lo abbia fatto: limitando la conquista del voto al di fuori del proprio consolidato elettorato di partito. L’analisi di Paolo Ceri, già ordinario nelle università di Torino e di Firenze, ora condirettore della rivista Quaderni di Sociologia

Un duplice interrogativo intriga e sconcerta analisti e politici. Intriga di più i primi, sconcerta di più i secondi. Il seguente: perché elettori che hanno votato partiti o liste avverse al governo Draghi o che lo hanno fatto cadere danno fiducia a Mario Draghi? Perché partiti o liste che più hanno sostenuto il governo, fino a dichiararsi paladini della “agenda Draghi”, sono stati meno votati?

A intrigare e sconcertare è il contrasto con il giudizio rilevato nei sondaggi, ampiamente positivo per Draghi e per il suo governo anche tra gli elettori di Fratelli d’Italia e dei Cinque Stelle. Di più, si tratta di un giudizio positivo che rimane maggioritario dal febbraio del 20021 ad oggi, cioè per l’intera vita del governo Draghi (come evidenziato nella sequenza mensile dei sondaggi Ipsos). È in questa permanenza di giudizio che sta la chiave per capire come si tratti di un contrasto più apparente che reale. Essendo infatti il gradimento dei governi normalmente decrescente nel tempo, essa è nettamente controtendenza, al punto che un premier e il suo governo rimasti in carica per gli affari correnti vedono aumentare dopo le elezioni il proprio indice di gradimento.

Poiché nel caso di Draghi il gradimento non poggia su una rappresentanza politica in senso proprio, deve avere un diverso fondamento. E infatti il fondamento è una qualità personale: l’autorevolezza. Maturata nel tempo, cioè ricoprendo posizioni di responsabilità diverse, essa si consolida nella misura in cui gli è riconosciuta anche dopo il cambio o la sospensione delle stesse. Superiore a quella di altri premier tecnici, è una autorevolezza che nella percezione di molti è legata, oltre che alla competenza, all’indipendenza, alla capacità decisionale e alla sobrietà comunicativa. Qualità che in una situazione di prolungate calamità ed emergenze (Covid, guerra, crisi ambientale ed energetica, inflazione) sono quanto mai apprezzate. Qualità che, per chi non vi vede l’emissario della finanza internazionale e dei poteri forti, fanno di Draghi un soggetto altro rispetto alla screditata schiera dei politici.

Se le cose stanno così, ne derivano due conseguenze. La prima è che l’autorevolezza suscita in una parte dei governati due processi: l’identificazione e la delega, cioè le disposizioni soggettive verso Draghi a identificarsi e a delegare nella risoluzione dei problemi. Al riguardo si devono distinguere due dimensioni, due ambiti di azione: l’interno e l’esterno.

Ebbene, l’ipotesi è che all’interno, cioè con riferimento al funzionamento del sistema politico nazionale, abbia operato soprattutto, se non quasi esclusivamente, un processo di delega, mentre a livello internazionale, sul piano europeo e non soltanto, oltre alla delega abbia operato un processo di identificazione.

La seconda conseguenza, forse meno diretta ma politicamente rilevante, è che, proprio per l’apprezzata diversità di Draghi, l’aver ribadito in campagna elettorale d’esser stati i più leali sostenitori del suo governo e di volerne attuare l’agenda ha sortito l’effetto contrario: quello di apparire come chi si arroga una qualità e un credito che non gli competono. Nella misura in cui questo meccanismo opera, il leader e il suo partito invece di venire associati a Draghi, ne vengono dissociati. Si ottiene pertanto un effetto perverso, che possiamo chiamare “effetto Draghi”. Se è difficile stimare quanto abbia influito sul risultato elettorale, non lo è presumere in quale modo lo abbia fatto: limitando la conquista del voto al di fuori del proprio consolidato elettorato di partito.

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