Attenti a non fare confusione. Le misure di breve periodo, che hanno effetto immediato sui prezzi e sulle quantità di energia consumate, sono del tutto diverse da quelle di lungo periodo, che sono invece dirette agli investimenti. L’analisi di Pasquale Lucio Scandizzo
Il dibattito sulle misure economiche per fronteggiare l’attuale crisi energetica riguarda questioni complesse, che alimentano una serie confusa di argomenti. Per fare chiarezza è necessario distinguere le diverse misure, tenendo però conto del fatto che i loro effetti sono interdipendenti. Le misure di breve periodo, per esempio, che hanno effetto immediato sui prezzi e sulle quantità di energia consumate, sono del tutto diverse da quelle di lungo periodo, che sono invece dirette agli investimenti.
Entrambe sono però interdipendenti sia perché cambiano i rapporti dei prezzi, sia perché inevitabilmente esse hanno effetti sulle aspettative degli operatori. Vanno anche distinte le misure internazionali, quali il limite al prezzo del gas importato, dalle misure nazionali, quali i sussidi per aiutare famiglie o imprese. Inoltre, e questo è un elemento spesso assente dalle considerazioni di politici e commentatori sull’argomento, ci sono politiche che, se attuate, possono essere preferite rispetto ad altre perché alcuni contendenti ne traggono vantaggio, mentre altre politiche possono essere ritenute migliori da alcuni perché, benché tutti perdano qualcosa, essi perdono meno di altri.
Gli effetti delle diverse misure vanno quindi considerati separatamente, ma, a causa della interdipendenza dei settori e degli operatori su cui agiscono, il loro impatto va esaminato su tutti i diversi fronti: quello internazionale, con la distribuzione tra i diversi Paesi, e quello nazionale, tenendo conto delle diversità di reddito delle famiglie e di struttura produttiva delle imprese. Gli interventi interni dei singoli Paesi, nonostante l’apparente località dei loro obiettivi, sono misure che hanno anch’esse un impatto internazionale e per quanto possibile non dovrebbero risolversi in sussidi che scoraggiano il risparmio di energia.
Essi andrebbero distinti in interventi di sostegno, da erogare solo alle famiglie bisognose e alle imprese energivore e in interventi di mercato, volti ad incoraggiare gli investimenti in energia rinnovabile. L’Ue ha adottato un bando totale sulla importazione di carbone russo e del petrolio greggio e dei prodotti petroliferi russi trasportati via mare. Questo provvedimento copre il 100% delle importazioni di carbone e il 90% delle attuali importazioni di petrolio dalla Russia.
Per limitare l’impatto sui prezzi, gli Stati Uniti, che hanno adottato una misura analoga, si sono impegnati a rilasciare volumi rilevanti delle loro riserve strategiche, anche in risposta alla recente decisione di Opec Plus di restringere la produzione. Per il gas naturale, la situazione è più complicata, e qualunque provvedimento potrebbe avere pesanti ripercussioni sulle aspettative e sugli investimenti. Da un lato, infatti, il gas naturale è un prodotto di merito che ha lo status, pur se in rapido deterioramento, di una scelta strategica di transizione tra il carbone e le fonti di energia rinnovabile. Dall’altro, esso è meno importante del petrolio come arma economica, poiché le esportazioni russe di petrolio greggio e prodotti petroliferi rappresentano i tre quarti dei proventi delle esportazioni di energia dall’Ue.
La proposta della imposizione di un tetto al prezzo del gas russo da parte dei Paesi europei nasce dalla difficoltà di applicare un embargo simile a quello del petrolio a causa sia della dipendenza ancora forte dell’Europa dal gas russo, sia della diversità della dipendenza e della situazione economica dei diversi Paesi. L’argomento a sostegno della proposta si può articolare in modo semplice paragonandola a due alternative:
1) la situazione attuale
2) l’imposizione di una tariffa sulle importazioni di gas
Nella situazione attuale, la Russia esercita il suo potere monopolistico come fornitore residuale di gas all’Europa restringendone l’offerta. Ciò porta a un incremento del prezzo e a una riduzione del consumo. Poiché l’incremento dei ricavi è maggiore della riduzione delle vendite, la Russia incassa maggiori guadagni e l’Europa soffre perché costretta a pagare maggiori prezzi e a consumare meno.
La Russia è però anch’essa vulnerabile perché è connessa con una rete esclusiva di gasdotti con i Paesi europei e quindi se questi decidessero di non comprare, essa non avrebbe una alternativa immediata. In altre parole, il mercato del gas russo è un monopolio bilaterale in cui solo uno dei due monopolisti (la Russia) esercita il suo potere di mercato, mentre il monopsonista (l’Europa) accetta supinamente le decisioni della sua controparte.
L’imposizione di una tariffa sulle importazioni dalla Russia migliorerebbe la situazione, perché ridurrebbe la domanda europea per ogni livello di prezzo e quindi ridurrebbe il guadagno russo causato dalla riduzione dell’offerta a parità di domanda. Rispetto alla situazione attuale i prezzi sarebbero maggiori, ma i consumi più che proporzionalmente minori. I consumatori europei sarebbero anch’essi colpiti, ma la tariffa produrrebbe dei proventi che potrebbero essere utilizzati per compensarli per i maggiori prezzi e per i minori consumi. Nel caso del tetto al prezzo del gas, l’Europa comprerebbe invece liberamente dal mercato per prezzi inferiori al limite di prezzo, ma sospenderebbe ogni acquisto per prezzi superiori.
Poiché al di sotto del limite gli acquisti sarebbero liberi, i modelli economici più accreditati mostrano che il cap potrebbe essere fissato a un livello in cui i proventi russi sarebbero superiori a quanto sarebbero con una tariffa, mentre il prezzo medio pagato sarebbe inferiore e i consumi europei superiori. Sia la Russia che l’Europa avrebbero quindi un vantaggio rispetto alla imposizione della tariffa, ma non rispetto alla situazione attuale che penalizza solo l’Europa.
Sia la tariffa, sia il price cap sarebbero tuttavia raccomandabili, a patto che la UE adottasse opportune misure di perequazione che riflettano i benefici e i costi diversi dei Paesi europei, tra cui anche i rischi di una risposta punitiva da parte della Russia. Queste considerazioni si applicano anche al price cap dinamico recentemente proposto da 15 Paesi che si applicherebbe alle transazioni all’ingrosso non limitatamente alla Russia e non limitatamente ‘allo specifico uso del gas naturale. La risposta punitiva della Russia, irrazionale, ma comprensibile come parte della guerra economica in corso, potrebbe consistere in una sospensione totale della erogazione di gas russo ai Paesi europei.
Bisogna quindi esaminare questa eventualità anche perché in questo caso, alcune stime, anch’esse basate su attendibili modelli economici, mostrano che il costo per la Russia sarebbe minore di quello per la Ue. Le stime dell’Ocse, per esempio, suggeriscono che la sospensione totale delle importazioni di gas russo avrebbe un effetto drammatico sui prezzi globali del gas e sulle produzioni ad alta intensità energetica con effetti importanti anche sul prezzo del petrolio. Secondo l’Ocse, supponendo che il 75% delle esportazioni di gas russo verso l’Ue non possa essere deviato ad altri Paesi, la crescita nella maggior parte delle economie europee sarebbe destinata a essere considerevolmente più debole di quanto ci si aspetterebbe, con il rischio di contribuire a un episodio lungo di deflazione storica. L’entità dello shock tra i paesi sarebbe inoltre molto diversa.
Stime recenti, per esempio, collocano allo 0,15-0,3%, la riduzione annua del PIL francese. La perdita per la Germania sarebbe invece molto maggiore, con una forchetta più ampia, che potrebbe raggiungere anche il 3%. Per l’Italia non vi sono stime attendibili, ma è verosimile che le sue perdite sarebbero più vicine e forse superiori a quelle della Germania piuttosto che della Francia. Il costo totale dal 2022 al 2030 in questo scenario sarebbe di circa 1500 Euro per residente europeo per una quota intorno allo 0.7% del valore dei consumi, ma la variabilità tra i diversi Paesi sarebbe molto elevata e, particolare non trascurabile, molto più elevata di quella dello status quo.
Dal punto di vista degli investimenti e del medio-lungo termine, le prospettive sono alquanto diverse. Anzitutto una parziale debacle: la transizione energetica sta perdendo il gas come strumento intermedio di diversificazione e di riduzione immediata delle emissioni di CO2. Mentre l’energia verde e il gas venivano entrambi utilizzati per sostituire il carbone, dopo il vertiginoso aumento dei prezzi, energie rinnovabili e carbone stanno infatti diventando entrambi strumenti per ridurre la dipendenza dal gas. Questo riduce la capacità di abbattere le emissioni in tempi brevi e crea un problema di lungo termine soprattutto per i Paesi in via di sviluppo che contavano molto sulle recenti scoperte di grandi giacimenti di gas naturale.
Gli incrementi dei prezzi a cui stiamo assistendo non hanno però solo effetti negativi, anche se ci si deve attendere un incremento significativo di investimenti in energia fossile. Da un lato, infatti, il grande volume di extraprofitti realizzato dai produttori, stimato per il 2022 in più di 4000 miliardi di dollari, e che continuerebbe, sebbene in tono minore con un embargo o anche con un price cap, può essere interpretato come una insperata compensazione ai Paesi produttori e ai loro partner industriali per la perdita progressiva di valore degli investimenti accumulati sulle fonti fossili ( i cosiddetti stranded assets costituiti dalle riserve, le concessioni e gli impianti), che avanzava a ritmi serrati a causa della loro attesa dismissione per la transizione energetica. Si tratta, quindi, di una occasione unica per diversificare sia i propri asset energetici, sia la propria economia.
Le agenzie internazionali stimano che questi profitti saranno in gran parte utilizzati per investimenti in energia rinnovabile, e i modelli economici mostrano che questo trend, che coinvolgerà massicciamente anche investitori esterni ai Paesi produttori, continuerà nei prossimi anni, se i prezzi dell’energia continueranno ad essere sostenuti. Ci troviamo probabilmente di fronte a una stagione di investimenti eccezionali, soprattutto nel settore dell’energia pulita sotto lo stimolo di prezzi elevati e carenze di offerta nei Paesi europei molto al di là di quanto non ci si aspettasse prima della crisi.
Ciò anche perché l’aumento dei prezzi sembra aver fugato il timore di uno dei cosiddetti “paradossi verdi”, ossia il fatto che il basso costo di esercizio delle fonti di energia pulita tendesse progressivamente a ridurre il prezzo dell’energia e facesse quindi progressivamente ridurre l’incentivo ad investire. Gli investimenti in energia rinnovabile, tuttavia, sostituirebbero soprattutto il gas naturale, mentre le centrali a carbone contribuirebbero alla stessa sostituzione e potrebbero aumentare in modo preoccupante.
Secondo simulazioni condotte con il modello economico globale GeminiE3 (SSRN-id4231369.pdf), per esempio, nel caso di un embargo totale del gas russo per 7 anni, in Europa il consumo di elettricità da fonti rinnovabili potrebbe aumentare dell’80% nel 2030 rispetto ai valori attuali, e quello di elettricità del 40%, mentre l’elettricità da gas naturale diminuirebbe del 24%. Simili risultati, mutatis mutandis, per singoli Paesi danno le simulazioni dei modelli di OpenEconomics (www.openeconomics.eu).
La combinazione di prezzi elevati e di sostegni pubblici sembra anche destinata a consentire l’ingresso sul mercato europeo di una nuova generazione di investimenti in tecnologie di avanguardia, dalla produzione di idrogeno, alle batterie alla cattura di CO2, alle “tecnologie intelligenti” che permettono di fronteggiare con flessibilità e prontezza la inevitabile volatilità e incertezza della domanda di energia. Questi investimenti, fino ad ora tenuti a freno dalla insufficiente remuneratività e dai bassi prezzi del carbonio, potrebbero contribuire a rilanciare in modo significativo la lotta al cambiamento climatico e forse anche la crescita economica globale nei prossimi 20 anni.