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È necessario il contributo delle Big tech al finanziamento delle reti? Scrive Preta

Il dibattitto si farà sempre più acceso sul contributo delle piattaforme – in particolare le very large platforms – al costo delle reti. Questa iniziativa, propugnata da tempo dalle grandi telco europee, ha trovato più di recente l’interesse e in alcuni casi il sostegno della Commissione europea, a partire dal Commissario Thierry Breton. Tutti i dettagli nell’analisi di Augusto Preta

Da tempo si è aperto un ampio dibattito a livello internazionale sul futuro delle telecomunicazioni in un’epoca di grandi trasformazioni economiche e sociali. Negli ultimi anni infatti lo scenario è profondamente cambiato: accanto agli operatori tradizionali si sono affermati nuovi attori, le grandi piattaforme, che pur non disponendo di proprie infrastrutture di rete, offrono applicazioni, contenuti e servizi agli utenti finali in modalità online, attraverso le reti broadband e ultra-broadband delle telcos.

Se dunque tutto ciò accelera il processo di trasformazione digitale e rafforza il ruolo essenziale e la centralità delle infrastrutture in questo ambito, al contempo accresce però anche le difficoltà e incertezze che gli operatori di telecomunicazioni si trovano ad affrontare nel mutato contesto competitivo.

L’oggetto del contendere

In tale scenario va dunque inserito un tema molto caldo, destinato a suscitare un dibattito sempre più acceso nei prossimi mesi, riguardante il contributo delle piattaforme – in particolare le very large platforms – al costo delle reti.
Questa iniziativa, propugnata da tempo dalle grandi telcos europee – Deutsche Telekom, Orange, Telefónica, Tim e Vodafone in testa, e dalle associazioni che le rappresentano come Etno e Gsma – ha trovato più di recente l’interesse e in alcuni casi il sostegno della Commissione europea, a partire dal Commissario al Mercato Interno Thierry Breton che solo pochi giorni fa a Bruxelles, in un incontro organizzato dall’Associazione degli operatori mobili, Gsma, ha rinnovato il suo sostegno alle telcos, sottolineando che solo un’infrastruttura europea resiliente, basata su modelli di business sostenibili, può portare tutti i cittadini europei nel decennio digitale. Sempre nell’occasione le telcos a loro volta hanno sottolineato in una dichiarazione congiunta come “il tempo scorre veloce, soprattutto in considerazione degli enormi investimenti ancora necessari per raggiungere gli obiettivi di connettività per il 2030 fissati dalla Commissione europea nel suo Digital ComCAPt. Senza una soluzione equa, non ci arriveremo”, conclude la dichiarazione.

A tal proposito, già nel marzo 2022, Thierry Breton aveva annunciato l’intenzione della Commissione europea di presentare un’iniziativa legislativa per far sì che le piattaforme, grandi fornitrici di contenuti (CAP) contribuissero ai costi delle reti ad altissima velocità. La consultazione pubblica, che si terrà nella prima parte del 2023, riguarderà in realtà un ambito più ampio, dove questo tema verrà affrontato, ovvero l’evoluzione del Digital Market Act e del Digital Services Act nell’era del Metaverso.

L’iniziativa mira a rispondere a una richiesta di lunga data da parte degli operatori di telecomunicazioni (Isp) che accusano le piattaforme online di consumare grandi quantità di dati senza pagare il costo della capacità di banda, in virtù del fatto che lo streaming video, i giochi e i social media generano più del 70% del traffico e gran parte dei profitti sono raccolti dai giganti di internet, le big tech, grazie al loro modello di business su scala globale.

Cercando di semplificare la questione per renderla maggiormente comprensibile, i grandi Isp europei basano la loro richiesta di un regime di pagamento regolamentato sull’argomentazione che una parte consistente e crescente del traffico di rete è generata e monetizzata dalle grandi piattaforme tecnologiche, lamentando anche di non avere sufficiente potere contrattuale per definire condizioni di accesso alla rete eque, in un contesto che è attualmente lasciato alla negoziazione commerciale tra le due parti che non garantisce condizioni di parità tra tutti gli attori. Il rischio è che a farne le spese sia la qualità del servizio offerto agli utenti finali. Secondo le proposte dell’Etno, le “tariffe d’uso della rete” regolamentate sostituirebbero l’interconnessione a Internet negoziata a livello commerciale, e queste tariffe comporterebbero pagamenti obbligatori, legati al traffico, da parte delle società Internet che forniscono traffico agli Isp.

Il tema peraltro non è nuovo. Già nel 2012, Etno, l’Associazione che raccoglie gli incumbent europei, aveva proposto di implementare un meccanismo di tariffazione sending party network pays. All’epoca, il Berec, l’organismo europeo che raccoglie le Autorità nazionali di regolamentazione delle Comunicazioni Elettroniche, valutò la proposta di Etno e concluse che non sembrava aver tenuto conto del fatto che la richiesta del flusso di dati di solito non proviene dai Cap, cioè dai fornitori di contenuti, ma direttamente dal cliente finale, che utilizza i servizi e fa crescere il traffico, da cui l’Isp sta già ricavando entrate. In altri termini sono le stesse piattaforme che contribuiscono a creare la domanda di servizi di telecomunicazione, pagata a sua volta dagli utenti finali utilizzatori di tali servizi.

Come allora, anche oggi, a distanza di 10 anni, con un documento preliminare appena pubblicato, il Berec ha deciso di contribuire al dibattito sul contributo dei Capagli investimenti di rete.

Il punto di vista del Berec

Pur riconoscendo che i modelli di traffico sono cambiati, tuttavia il Berec ritiene che ciò non modifichi le ipotesi di base relative al regime di tariffazione della rete di trasmissione e ritiene che le conclusioni del 2012 siano ancora valide.

Per quanto riguarda i fattori di costo, il Berec ritiene infatti che l’aumento dei volumi di traffico non comporti direttamente costi incrementali significativi rispetto ai costi totali della rete, poiché i costi delle infrastrutture di rete Ip non sono particolarmente sensibili al traffico e sono comunque recuperati nel tempo attraverso gli abbonamenti dei clienti. Inoltre, per le reti fisse, i componenti della rete di accesso più vicini all’utente finale tendono generalmente a essere dimensionati in base al numero di clienti serviti o potenzialmente serviti.

Le reti mobili a loro volta presentano un certo grado di dipendenza dal traffico, poiché il costo relativo alla costruzione di stazioni di base aggiuntive per aumentare la capacità in determinate aree è sensibile al traffico. Tuttavia, i costi marginali dell’utilizzo aggiuntivo dei dati sono piuttosto bassi e questo si riflette anche sugli operatori di rete mobile (Mno), poiché il prezzo delle loro offerte è tipicamente legato alle quote di dati incluse.
Per quanto riguarda l’interconnessione Ip, il Berec ha precisato che gli accordi di interconnessione prevedono solo la fornitura di capacità del collegamento di interconnessione e non la trasmissione end-to-end di particolari flussi di dati attraverso diverse reti Ip autonome. In pratica, i costi per l’aumento di questa capacità sono spesso condivisi dalle parti coinvolte (cioè Cap e Isp), quindi è reciprocamente vantaggioso per entrambe le parti aumentare i nodi di interconnessione. Inoltre, anche in questo caso i costi assoluti per l’aumento della capacità di interconnessione sono molto bassi rispetto ai costi di costruzione delle reti di accesso.

L’ipotesi del Berec che i Cap e gli Isp siano reciprocamente interdipendenti è dimostrata anche dal fatto che i contenuti forniti dai Cap determinano la domanda di capacità fornita dagli Isp, in quanto possono aumentare la domanda degli utenti finali di maggiore larghezza di banda e di velocità più elevate e di maggiori quantità di dati. In altre parole, gli Isp “usano” i contenuti dei Cap per aumentare le entrate, consentendo agli Isp di addebitare agli utenti finali le tariffe in base al loro modello di utilizzo.

Un altro presupposto alla base delle richieste di pagamento da parte degli Isp nei confronti dei grandi Cap è che questi ultimi “sfruttano” le infrastrutture degli Isp, secondo una tipica modalità di “free riding”: i Cap utilizzerebbero questa infrastruttura senza che gli Isp siano (totalmente o parzialmente) compensati per questo in maniera parassitaria e, pertanto, i costi sostenuti dagli Isp non sarebbero coperti. A questo proposito, il Berec osserva che sia i Cap, da un lato, sia gli utenti di queste applicazioni, dall’altro, contribuiscono già a pagare la connettività a Internet. Non vi sono prove che i costi di rete degli operatori non siano già completamente coperti e pagati nella catena del valore di Internet.

Il Berec ha inoltre riferito che gli operatori di rete e/o gli Isp europei di piccole e medie dimensioni, che stanno anche investendo attivamente in reti ad alta capacità, hanno espresso preoccupazione per le proposte dei grandi Isp che chiedono un contributo finanziario da parte delle grandi Cap. In effetti, l’Associazione tedesca per la banda larga (Breko) afferma che è disponibile un capitale sufficiente per gli investimenti nelle reti in fibra, soprattutto da parte di investitori privati: dei 2,9 miliardi di euro investiti nello sviluppo della rete dai membri della Breko, solo una piccola quota, del 10%, è stata finanziata da fondi pubblici, mentre il 90% è stato realizzato attraverso investimenti in Capex, e ciò non è legato ad alcuna condizione relativa alla differenziazione del traffico internet. Inoltre, la forte diffusione della fibra ottica non si basa su accordi specifici con le piattaforme Ott e viene attualmente proposta senza alcun impatto sulla parità di trattamento del traffico internet.

Si teme a questo proposito che una compensazione diretta dai grandi Cap ai grandi Isp possa peraltro mettere in pericolo il principio della neutralità della rete e portare a una distorsione della concorrenza, svantaggiando gli Isp di piccole e medie dimensioni, nonostante il fatto che questi operatori alternativi spesso rappresentino una parte considerevole dell’installazione della rete in fibra. Ciò è in contrasto con la bozza aggiornata di linee guida del Berec sull’Open Internet, che rafforza “l’obbligo per gli Isp di trattare tutto il traffico allo stesso modo”.

Oltre alle preoccupazioni sulla neutralità della rete, Breko vede il rischio che il coinvolgimento delle piattaforme Ott includa solo gli operatori di rete più grandi e lasci fuori le aziende più piccole. Questo darebbe un chiaro vantaggio competitivo a un numero limitato di operatori di rete e un chiaro svantaggio a tutti gli altri attori del mercato, non portando a una più ampia disponibilità di reti in fibra, come suggerisce la proposta dei grandi operatori di rete europei. Ciò comprometterebbe anche gli accordi di peering equi tra operatori più grandi e più piccoli o tra operatori storici e concorrenti. Di conseguenza, aumenterebbe l’incentivo per i grandi operatori di rete a costringere gli operatori più piccoli al “peering a pagamento”.

Opinioni a sostegno dell’attuale modello europeo provengono anche dall’Associazione europea per le telecomunicazioni degli operatori alternativi (ecta), che sostiene che il modello europeo, costruito su un quadro giuridico comunitario pro-concorrenziale per le comunicazioni elettroniche, che prevede l’accesso all’ingrosso alle reti, la trasparenza, la non discriminazione, la regolamentazione dei prezzi e la separazione contabile, ove opportuno, e la regolamentazione strutturale, ha dimostrato i suoi benefici per il benessere dei cittadini e dei consumatori europei e i suoi principi, incluso quello della neutralità della rete, non dovrebbero essere cambiati.

In conclusione il Berec non ha trovato prove che il meccanismo di “compensazione diretta” sia giustificato, ribadendo che internet ha dimostrato la sua capacità di auto-adattarsi a condizioni mutevoli, come l’aumento del volume di traffico e il cambiamento dei modelli di domanda, e che i costi degli aggiornamenti di rete necessari per gestire un aumento del volume di traffico Ip è molto basso rispetto ai costi totali della rete. Inoltre, le evidenze del Berec suggeriscono come gli Isp e i Cap siano reciprocamente dipendenti, in quanto la domanda di contenuti spinge la domanda di accesso alla banda larga e, viceversa, la disponibilità di internet porta a una maggiore domanda di servizi internet.

Da ultimo, secondo il Berec, non sussistono prove di “free-riding”, mentre è chiaro che il modello “sending party network pays” (Spnp) offrirebbe agli Isp la possibilità di sfruttare il monopolio di terminazione delle reti, ed è ipotizzabile che un cambiamento così significativo possa danneggiare in modo significativo l’ecosistema di internet nel suo complesso.

Per tutti questi motivi, conclude il Berec, le prove a favore dell’interconnessione negoziata, piuttosto che regolamentata, sono ampie e profonde. Le negoziazioni hanno sostenuto lo sviluppo di Internet, si sono diffuse in tutti i Paesi e si sono evolute per riflettere i cambiamenti relativi all’accesso e ai contenuti. Le autorità di regolamentazione che stanno valutando un cambiamento dello status quo dovrebbero considerare l’impatto nell’unico Paese che ha già effettuato tale cambiamento, la Corea del Sud, dove la regolamentazione ha portato a complessità e conseguenze indesiderate, e potrebbe rivelarsi dannosa per i consumatori e per gli investimenti. Si dovrebbe in tal senso considerare sia la reale necessità che le varie implicazioni di tali cambiamenti apporterebbero per l’Europa.

Anche in virtù di tali considerazioni l’idea di imporre alle Big Tech di contribuire agli investimenti nelle reti delle telco ha sollevato proteste, sempre nei giorni scorsi, da parte di sette Stati membri – Germania, Irlanda, Svezia, Estonia, Danimarca, Finlandia e Olanda – che in una lettera congiunta alla Commissione hanno sollecitato un dibattito trasparente e aperto sul tema prima di presentare qualunque genere di proposta formale, invitando la Commissione ad attendere le conclusioni definitive del Berec al riguardo. Insomma, la partita è appena iniziata, e la conclusione è certamente lontana dall’essere scritta.



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