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Cyber-attacchi e disinfo. Riflettori del G7 puntati sulla Cina

Maggior prudenza sull’Ucraina e offensive contro le infrastrutture occidentali: ecco le mosse di Pechino. Nei giorni scorsi la riunione tecnica del Rapid Response Mechanism su tendenze della propaganda e resilienza collettiva contro le minacce autocratiche

Nell’ultima settimana i media di Stato e i diplomatici cinesi si sono concentrati su tre temi: Xinjiang, Elon Musk e Ucraina. È quanto si legge nell’ultimo rapporto dell’Alliance for Securing Democracy che ha analizzato sulla sua piattaforma Hamilton 2.0 il periodo dal 5 all’11 ottobre.

#Xinjiang è stato l’hashtag più menzionato (205 volte). Più di #Covid19 (73) nonostante l’insistenza del leadership del Partito comunista cinese sulla politica Zero Covid. Ma soprattutto più di #20thPartyCongress (71) dedicato all’evento che inizierà domani e incoronerà Xi Jinping segretario del Partito per la terza volta, un unicum. La ragione è evidente: il voto del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che la scorsa settimana ha deciso di non discutere della situazione nella regione cinese dello Xinjiang, da anni al centro delle denunce di crimini contro l’umanità portate da diverse organizzazioni non governative come Amnesty International, da molti Paesi a cominciare dagli Stati Uniti, nonché dalle stesse Nazioni Unite.

La frase “elonmusk” è stata menzionata 45 dai profili monitorati sulla Hamilton 2.0. La maggior parte delle citazioni erano relative alle parole del fondatore di Tesla e SpaceX che ha suggerito una soluzione della crisi di Taiwan che preveda per l’isola un “regime amministrativo speciale” simile a quello di Hong Kong, concedendo a Pechino maggiore controllo su quella che le autorità cinesi ritengono una provincia ribelle da annettere anche con la forza. “La questione di Taiwan è un affare interno della Cina”, è stata la linea con cui la diplomazia cinese a invitato Musk a non preoccuparsi della questione che Pechino ritiene essere “interna”.

Quanto alla guerra russa d’invasione dell’Ucraina gli analisi dell’Alliance for Securing Democracy hanno osservato come la comunicazione cinese continui con “una leggera inclinazione a favore del Cremlino”. Da un lato, il ministero degli Esteri ha cercato di mantenere un’apparente neutralità, per esempio rispondendo seccamente a una domanda dei media statali russi sull’esplosione del ponte di Crimea. Dall’altro, però, i media di Stato e i diplomatici cinesi hanno raccontato il fatto dando particolare risalto alle accuse russe di “terrorismo” e tacendo le rappresaglie di Mosca.

Anche di questi aspetti si è discusso nei giorni scorsi a Berlino in occasione della riunione tecnica del G7 Rapid Response Mechanism, una piattaforma di scambio di informazioni e pratiche per rafforzare il coordinamento contro le minacce, online e offline, delle autocrazie verso le democrazie. Presente anche Leah Bray, coordinatrice ad interim del Global Engagement Center, struttura del dipartimento di Stato americano. Al centro dei lavori a Berlino, come spiegato dalla diplomazia statunitense in una nota, le “tendenze della propaganda e della disinformazione sponsorizzate dall’estero” e il rafforzamento della “resilienza collettiva contro queste minacce”.

Il 24 agosto scorso, sei mesi dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, il Global Engagement Center ha diffuso un documento dal titolo “Russia’s War on Ukraine: Six Months of Lies, Implemented”, disponibile in diverse lingue tra cui il cinese. E la Cina non viene mai citata nel dossier. Non sembra un caso. Infatti, la propaganda cinese ha amplificato quella russa in chiave anti Nato e anti Stati Uniti, utilizzando anche i propri diplomatici (cosa che la Russia fa molto meno). Gli analisti stanno però osservando una maggiore prudenza da parte di Pechino dopo i referendum di annessione delle quattro regioni ucraine alla Russia. Probabilmente perché, alla luce delle situazioni interna e internazionale, alla Cina non conviene alimentare il conflitto né offrire possibili sponde all’indipendentismo di Taiwan.

Grande attenzione da parte degli Stati Uniti e degli alleati negli ultimi mesi ai cyber-attacchi cinesi. Nei giorni scorsi il team Threat Hunter di Symantec ha rivelato che il gruppo Budworm, che altri ricercatori chiamano APT27 o Emissary Panda, legato al governo cinese, ha attaccato “una serie di obiettivi strategicamente significativi” negli ultimi sei mesi, tra cui il governo di un Paese mediorientale, una multinazionale dell’elettronica e una legislatura statale statunitense.



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