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Il Croce di Sangiuliano. Una storia antica

Per quale ragione il nuovo ministro della Cultura come primo viaggio ha scelto la biblioteca di Benedetto Croce a Napoli? Per capirlo, bisogna tornare indietro di 30 anni. Il racconto di Corrado Ocone

Che Gennaro Sangiuliano come primo atto da ministro abbia visitato ieri la biblioteca di Benedetto Croce a Napoli, non è un caso. Per capire come questa decisione affondi le radici nella sua storia personale, bisogna fare un salto indietro di trent’anni. Siamo a Napoli, primi anni Novanta, e Sangiuliano dirige da poco il vecchio giornale del Partito liberale cittadino, L’Opinione del Mezzogiorno.

Con lui a collaborare ci sono anche alcuni giovani alle prime armi che, sotto impulso del segretario cittadino del partito, il compianto Ernesto Paolozzi, che era anche uno noto studioso di Croce, animano di vivacità giovanile le vecchie stanze di via Medina, ove, dopo il secondo conflitto, vecchissimo, transitava pure Croce. Fra i “giovani liberali” c’è anche il sottoscritto, che a casa Croce in quegli anni lavorava con una borsa di studio dell’Accademia dei Lincei. Con Sangiuliano ci incontrammo quasi naturalmente, all’insegna dell’esigenza di provare a spezzare nel nostro piccolo le catene dell’ egemonia gramsciana non dico sulla cultura italiana ma almeno su quella napoletana. Io, che fra l’altro dirigevo una rivista che avevo con sfrontatezza giovanile chiamato CroceVia, decisi a un certo punto di fare un numero su Giovanni Gentile, con l’intento di riabilitare filosoficamente quello che ai nostri occhi appariva come uno dei più grandi pensatori del Novecento, non riducibile alla sua appartenenza (fra l’altro mai organica seppur mai tradita) al partito fascista.

Fu lì che le strade mie e di Sangiuliano, che già si erano incrociate, si intrecciarono: riuscimmo a coinvolgere nella nostra impresa, a partire da una città tutto sommato “provinciale” come Napoli, il fior fiore della cultura italiana, anche di sinistra, compreso Norberto Bobbio. Nella nostra ingenuità giovanile, ci sembrava che quello fosse il momento adatto per superare vecchie incrostazioni. Ci illudevamo. Di lì a poco la sinistra riprese il sopravvento con la sua cultura politically correct che sostituiva la vecchia marxista, non più proponibile, ma che ne conservava tutta l’arroganza e intolleranza per gli avversari. E la stessa destra, andata al potere, non si mostrò del tutto all’altezza di quella “rivoluzione culturale” e liberale che pure aveva promesso.

Fra le altre cose che io e Genny facemmo in quel periodo fu uno studio, che mise capo a un suo libretto, sul periodo in cui Croce era stato consigliere comunale a Napoli ed era stato lodato per la sua concretezza e buon senso, in barba ad ogni pregiudizio sulle astrattezze dei filosofi. Per noi Croce rappresentava, insieme a Gentile, il momento in cui la cultura italiana si era richiamata alle sue tradizioni (che affondano le radici in Machiavelli e Vico) e si era aperta al mondo (altro che provincialismo!) apportandovi la sua cifra originale, specifica, e tutto il valore della nostra identità nazionale.

Lo storicismo e il realismo politico erano, in sostanza, le idee che volevamo riabilitare. Che Genny dal suo alto scranno oggi riesca a riprendere quel filo e rendere fattivi i discorsi di allora, è l’augurio mio ma anche, mi auguro, di tutti gli italiani che hanno a cuore la propria Nazione. Oltre ovviamente di tutti gli uomini di cultura che la sinistra, impoverendo il discorso pubblico nazionale, ha in questi anni isolato ed emarginato.


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