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Il Nyt e il giallo Darija Dugina. La lettura di Quintavalle

Darya Dugina attentato

Una lettura analitica dell’articolo del New York Times in cui si parla di una mano ucraina dietro l’uccisione di Dugina. Il rapporto tra Biden e Zelensky, una possibile trattativa con Putin e l’avanzare incessante della guerra. L’opinione di Dario Quintavalle

Il 5 ottobre il New York Times ha lanciato una vera e propria bomba che non ha lasciato insensibile la comunità degli analisti sul suo significato.

In un articolo si afferma che “le agenzie di intelligence degli Stati Uniti ritengono che parti del governo ucraino abbiano autorizzato l’attacco con autobomba vicino a Mosca ad agosto che ha ucciso Daria Dugina, la figlia di un importante nazionalista russo, un elemento di una campagna segreta che i funzionari statunitensi temono possa ampliare il conflitto. Gli Stati Uniti non hanno preso parte all’attacco, né fornendo informazioni né altra assistenza. Essi (…) non erano a conoscenza dell’operazione in anticipo e si sarebbero opposti all’omicidio se fossero stati consultati. In seguito, hanno ammonito gli ucraini per l’assassinio”.

Darija Dugina morì il 23 agosto per una bomba piazzata sotto la sua auto, mentre lasciava una manifestazione a cui aveva partecipato insieme al padre Alexander Dugin.

Sin dall’inizio l’attentato era sembrato uno dei tanti omicidi misteriosi avvenuti durante l’era Putin in Russia, forse un regolamento dei conti, forse un segnale di elementi dell’apparato ostili alla guerra. Ma tornava comodo attribuirlo agli ucraini, e infatti pochi giorni dopo il servizio russo FSB aveva accusato una donna ucraina, Natalya Vovk, di aver organizzato l’attentato, con la complicità del connazionale Bogdan Tsyganenko. Kyiv aveva definito ridicole queste accuse e Washington aveva ripetuto la smentita.

Adesso invece gli americani sembrano “scaricare” gli alleati ucraini, e ci si domanda perché.

Curiosamente, il NYT scrive che “gli americani sospettano che il padre della signora Dugina, Aleksandr Dugin, un ultranazionalista russo, fosse il vero obiettivo dell’operazione”. È la scoperta dell’acqua calda: è noto che Dugin si è salvata la vita per la sua decisione all’ultimo secondo di prendere una macchina diversa da quella guidata dalla figlia.

L’articolo contiene elementi che vanno attentamente analizzati. Vediamo alcuni passaggi. Il primo: I funzionari americani sono stati frustrati dalla mancanza di trasparenza dell’Ucraina sui suoi piani militari e segreti, specialmente sul suolo russo. Gli Stati Uniti hanno spinto l’Ucraina a condividere di più i piani di guerra, con alterne fortune. All’inizio della guerra, i funzionari statunitensi hanno detto di sapere spesso di più sui piani di guerra russi, grazie ai loro intensi sforzi di intelligence, di quanto non sapessero sulle intenzioni di Kiev. Da allora la cooperazione è aumentata. Durante l’estate, l’Ucraina ha condiviso i suoi piani per la controffensiva militare di settembre con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna”.

È una vecchia doglianza questa, e sappiamo già dai reportages del Washington Post che Biden e Zelensky non si sono fidati l’uno dell’altro dal primo minuto. Il primo non aveva fiducia nella capacità ucraina di resistere all’invasione. Il secondo, prima non ha creduto agli avvertimenti americani, sull’imminenza dell’invasione, poi non ha ottenuto più dettagli sulle direttrici d’attacco, ed ha vissuto l’abbandono del paese da parte di tutto il personale diplomatico americano già dal 15 febbraio come un sostanziale via libera ai russi.

Ma, sinceramente, è possibile che la più potente agenzia spionistica del mondo, per sapere quali sono i piani degli ucraini, debba chiederli a loro? È credibile che, come scrive il NYT “gli Stati Uniti non hanno nemmeno un quadro completo dei centri di potere in competizione all’interno del governo ucraino, inclusi i militari, i servizi di sicurezza e l’ufficio di Zelensky”? Una frase velenosa che insinua che all’interno dell’amministrazione ucraina ci siano competizioni e faide dietro l’apparente unità di facciata.

Soprattutto curiosa quest’altra frase: “Dall’inizio della guerra, i servizi di sicurezza ucraini hanno dimostrato la loro capacità di raggiungere la Russia per condurre operazioni di sabotaggio. L’uccisione della signora Dugina, tuttavia, sarebbe una delle operazioni più audaci fino ad oggi, dimostrando che l’Ucraina può avvicinarsi molto a importanti personaggi russi”.

La storia non sta in piedi: non si hanno notizie di attacchi ucraini in territorio russo, salvo occasionali esplosioni in centri logistici nella città di Belgorod, la città russa più vicina al confine a pochi km da Karkhiv. E se gli ucraini avessero la capacità di condurre omicidi mirati nel cuore della Russia (la Dugina è morta nel distretto di Odintsovo, una zona benestante della periferia di Mosca), davvero la sprecherebbero prendendo di mira un obiettivo puramente simbolico come Alexander Dugin? Cioè un filosofo nazionalista confuso e arrabbiato che ancora qualcuno in Occidente si ostina a considerare l’ideologo di Putin, ma che nella cerchia dello Zar non conta, e non ha mai contato, assolutamente niente.

Il Times si dimostra preoccupato perché “i recenti successi sul campo di battaglia dell’Ucraina hanno spinto la Russia a rispondere con una serie di misure di escalation…”. Beh, la guerra funziona così. È colpa degli ucraini se stanno andando alla riscossa con successo?

“Gli Stati Uniti hanno cercato attentamente di evitare un’escalation non necessaria con Mosca durante il conflitto, dicendo a Kiev di non utilizzare l’equipaggiamento o l’intelligence americana per condurre attacchi all’interno della Russia”: in effetti l’amministrazione Biden ha fornito sistemi d’arma limitati con questa preoccupazione e a questa condizione.

Ma gli ucraini hanno colpito basi logistiche ed aeroporti in Crimea, proprio durante la stagione estiva, provocando una fuga di vacanzieri russi che ha intasato per giorni il ponte sullo stretto di Kerch. È stata la prima volta che ordinari cittadini russi hanno visto con i loro occhi la guerra, e le immagini dei bombardamenti ucraini sono circolate senza censura in tutta la Russia. Un colpo formidabile per l’Ucraina, sia dal punto di vista militare che della comunicazione.

Però, per quanto annessa alla Russia, la Crimea è legalmente ucraina e nessuno ha potuto obiettare niente.

Gli altri esempi che il Times cita di operazioni sotto copertura, sono solo omicidi mirati di collaborazionisti nelle zone occupate (non necessariamente avvenuti da parte di infiltrati di Kyiv: ci sono anche i partigiani del fronte interno). Adesso che queste zone sono state annesse alla Russia, gli ucraini dovrebbero rinunciare a combattere?

Insomma, tutto l’articolo suona falso: gli ucraini non hanno aspirazioni territoriali sul suolo russo. Il problema è che dopo una serie di annessioni illegali, è difficile capire cosa si possa considerare “territorio russo” e cosa no.

Probabilmente l’articolo annuncia che ci sono in corso delle trattative segrete con Putin. Che l’oggetto di queste trattative è una cessione parziale alla Russia dei territori annessi (per esempio, la Crimea) in cambio del ritiro dagli altri. A queste condizioni Putin salverebbe la faccia e si garantirebbe la sopravvivenza politica. Qualcosa di simile al “piano di pace” twittato da Elon Musk e che ha suscitato reazioni ironiche a Kyiv.

Un altro segnale interessante è che Biden non ha escluso l’eventualità di un incontro con Putin al G20 in Indonesia in novembre. Prima aveva chiesto che non partecipasse neppure. È possibile che le preoccupazioni di Biden siano oramai più rivolte al pubblico americano che si prepara alle elezioni di midterm dell’8 novembre, che a quello internazionale. La guerra in Ucraina costa per tutti, e agli Usa è costata un sacco. L’articolo del Times esce il giorno dopo un colloquio telefonico tra Biden e Zelensky. Non appare una coincidenza.

Ma è illusorio sperare che gli ucraini si fermeranno, ora che stanno vincendo. Una piattaforma di pace simile a quella fallita nei colloqui di pace di marzo in Turchia non può funzionare oggi: troppi morti, troppe distruzioni. Gli ucraini hanno di fronte un esercito che si sta squagliando, abbandonando arsenali che la rinforzano: il WSJ ha definito la Russia “il maggior fornitore di armi dell’Ucraina”. L’armata Brancaleone messa insieme con la mobilitazione russa – fatta da coscritti che devono pagarsi l’attrezzatura da soli – non è una minaccia seria.

Certo c’è la bomba. Ma quella c’è sempre stata. Putin è lo stesso di prima: cosa lo ha reso più rispettabile? Anzi, ora è pure un criminale di guerra. E Zelensky ha proibito per decreto di trattare con lui.

Seriamente come potrebbe Biden abbandonare o attenuare il sostegno all’Ucraina, come se fosse un secondo Afghanistan? Sarebbe un colpo mortale alla credibilità degli Usa. Traspare dall’articolo una chiara frustrazione per l’incapacità degli Usa di controllare l’Ucraina: che ha addirittura chiesto, senza domandare permesso a nessuno, di aderire alla Nato, dopo aver ottenuto gratis il candidate status per l’Unione europea.

Che strani questi ucraini che non si rassegnano a fare da campo da gioco per le partite altrui, ma vogliono avere voce in capitolo sul loro destino! Ma non era per questo che è scoppiata la guerra? Non era per questo che stiamo pagando tutti un conto salato?

Trattando a gennaio si sarebbe forse potuto evitare il conflitto. Ormai le cose sono andate troppo in là, e non è certo colpa degli ucraini.

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