Skip to main content

Dalla rivolta di gennaio alla visita del Papa. Il Kazakhistan raccontato da Vania De Luca

Dalla rivolta di gennaio alla visita del pontefice a settembre in Kazakhistan insieme a più di 80 delegazioni religiose fra cui il Grande Imam di al-Azhar al-Tayyeb cofirmatario con il papa, nel 2019 ad Abu Dhabi, del documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. La vaticanista Vania De Luca racconta a Formiche.net le implicazioni geopolitiche del viaggio di Francesco a Nur-Sultan

Nel gennaio del 2022 abbiamo raccontato della rivolta in Kazakhistan a causa dell’aumento dei prezzi dell’energia, a poco meno di un mese dall’invasione russa dell’Ucraina. Il presidente della Repubblica presidenziale – con governo monopartitico – Kassym Jomart Tokayev aveva licenziato il governo e imposto il coprifuoco. Secondo diversi analisti internazionali, uno degli attori della crisi di gennaio era senz’altro l’ex capo di Stato, il “padre della nazione” Nursultan Nazarbayev. Il Kazakhistan, tra i più tradizionali e fedeli paesi satellite della Russia di Vladimir Putin, teatro del viaggio apostolico di papa Francesco dal 13 al 15 settembre scorso. Il Kazakhistan è crocevia di rilevanti snodi geopolitici. “Riveste un ruolo fondamentale nell’attenuare le conflittualità e qui Giovanni Paolo II venne a seminare speranza subito dopo i tragici attentati del 2001 alle Torri Gemelle e al Pentagono negli Stati Uniti”, ha affermato papa Francesco. Formiche.net ne ha parlato con Vania De Luca, vaticanista del Tg3, tra i giornalisti delegati sul volo papale inviati a Nur-Sultan.

Vania De Luca, quant’è stato importante secondo lei, dal punto di vista geopolitico, organizzare in Kazakhistan il Congresso dei Capi delle religioni mondiali e tradizionali?

Credo che qualsiasi iniziativa finalizzata a far incontrare di persona leader e capi religiosi al fine di favorire una reciproca conoscenza e cammini comuni in nome della pace e della fraternità sia più che utile, preziosa. Nel caso del Kazakhistan il Congresso che lei citava è stato un evento giunto alla settima edizione (la prima fu nel settembre del 2003, su iniziativa del primo Presidente della Repubblica del Kazakhstan, Nursultan Abishevich Nazarbayev). Per la prima volta vi ha partecipato un papa, e dunque la presenza di Francesco è stata una novità. In agenda c’era originariamente un confronto su spiritualità e società nella post-pandemia, ma poi è arrivata la guerra in Ucraina a imporre di rivedere programma e temi prioritari. “Ci incontreremo come fratelli”, è stato l’auspicio del papa prima della partenza, “animati dal comune desiderio di pace di cui il mondo è assetato”. I leader religiosi erano disposti intorno a un grande tavolo rigorosamente tondo (anche se la presenza del papa risultava centrale rispetto alla collocazione in sala dei selezionatissimi invitati e dei giornalisti accreditati). C’erano più di 80 delegazioni, esponenti di Buddismo, Taoismo, Induismo, Zoroastrismo e Shintoismo, il Rabbino Capo d’Israele Yitzhak Yosef, e il Grande Imam di al-Azhar al-Tayyeb, musulmano sunnita, cofirmatario con papa Francesco, nel 2019 ad Abu Dhabi, del documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune. Si sono percepite sintonie e differenze, armonia pur nella diversità ma anche distanze. Da Mosca non è arrivato il patriarca Kirill, ma il metropolita Antonio, che ha parlato a tu per tu con il papa in uno degli incontri bilaterali previsti dal programma.

Per il 38° viaggio apostolico papa Francesco ha scelto il cuore dell’Asia, quale messaggio ha voluto dare alla comunità dei Paesi di quest’area?

Cuore dell’Asia e contemporaneamente un grande pPaese (tra i dieci più grandi al mondo), che è un crocevia: confinante con Europa, Russia e Cina, sulla rotta dell’antica Via della seta e sede ospitante dell’expo nel 2017. Un Paese che ha conosciuto i gulag in cui i sovietici imprigionavano i dissidenti politici e che accolse Giovanni Paolo II nel 2001, arrivato a “seminare speranza” pochi giorni dopo l’attentato alle Torri gemelle, e a 10 anni dalla proclamata indipendenza dall’orbita russa. Direi che il grande messaggio portato dal papa si può sintetizzare intorno all’invito a non affrontare i conflitti con le ragioni della forza, che si rivelano “inconcludenti”, quanto piuttosto ad accettare la “sfida della pace”, in un periodo storico segnato “dalla piaga della guerra, da un clima di esasperati confronti, dall’incapacità di fare un passo indietro e tendere la mano all’altro”. Cosa possono fare le religioni, insieme, per la pace? Questa mi sembra la grande domanda che muove tanti passi del papa, compreso il prossimo viaggio, a inizi di novembre, in Bahrein. “Occorre un sussulto e occorre, fratelli e sorelle, che venga da noi”, ha detto a Nur Sultan, invitando le grandi religioni, che costituiscono l’anima di tante culture e tradizioni, a un impegno attivo per la pace: “Non giustifichiamo mai la violenza. Non permettiamo che il sacro venga strumentalizzato da ciò che è profano. Il sacro non sia puntello del potere e il potere non si puntelli di sacralità! Dio è pace e conduce sempre alla pace, mai alla guerra”.

Non è passato poi inosservato, da parte del papa, il richiamo alle autorità alla necessità di allargare l’impegno diplomatico a favore del dialogo e dell’incontro. Quali risultati sono stati raggiunti?

Più che di risultati raggiunti penso sia utile parlare di risultati ancora da raggiungere, e non per un generico filantropismo, ma perché è concreto il rischio di un conflitto nucleare che dopo Hiroshima e Nagasaki pensavamo archiviato come errore della storia. Contemporaneamente c’è la Terra, la casa comune, che chiede un’inversione di rotta se non si vogliono rendere irreversibili gli effetti devastanti dei cambiamenti climatici e dello sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali. Temi emersi con forza a Nur Sultan. Quello che il papa sta cercando di fare, con gesti e con parole, è un cambio di paradigma culturale che pensando al futuro, ai giovani, promuove l’incontro, il dialogo, le trattative pazienti, e insieme la solidarietà, la condivisione, una pace legata alla giustizia, la lotta alle disuguaglianze. Alla conferenza stampa sul volo di rientro ha lodato come lungimirante la volontà del Paese di far dialogare quelli che di solito sono scartati, ossia i leader religiosi, visto che tra le cose che si scartano ci sono oggi i valori religiosi.

Prima dell’incontro con le autorità, il papa è andato incontro al presidente Kassym-Jomart K. Tokayev nel dorato palazzo presidenziale di Ak Orda per la cerimonia di benvenuto in Kazakhistan. E nell’affollato auditorium, seduto accanto al presidente – che ha ricordato i trent’anni dall’avvio delle relazioni diplomatiche tra il Kazakhistan e il Vaticano – Francesco ha espresso il suo apprezzamento per la rinuncia agli armamenti nucleari che questo Paese ha intrapreso con decisione, così come per lo sviluppo di politiche energetiche e ambientali incentrate sulla decarbonizzazione e sull’investimento in fonti pulite. Qual è stato il suo approccio con questo Paese?

Nei tanti viaggi che ho seguito dall’inizio del pontificato ho sperimentato con mano che papa Francesco ha una particolare predilezione per i Paesi di frontiera, per i crocevia. In Kazakistan ha ricordato subito i circa centocinquanta gruppi etnici e le più di ottanta lingue presenti nel Paese, con storie, tradizioni culturali e religiose variegate: “Compongono una sinfonia straordinaria”, ha detto, “e fanno del Kazakhstan un laboratorio multietnico, multiculturale e multireligioso unico, rivelandone la peculiare vocazione, quella di essere “Paese dell’incontro”, in cui “la libertà religiosa costituisce l’alveo migliore per la convivenza civile”. La parola “kazako” evoca il camminare libero e indipendente, e la tutela della libertà, ha sottolineato il papa, “si traduce nella società civile principalmente attraverso il riconoscimento dei diritti, accompagnati dai doveri”. In un Paese al 70 per cento musulmano, con i cristiani circa al 26% (per lo più ortodossi, appena l’1% i cattolici), Francesco ha assicurato che questi ultimi, “presenti in Asia centrale fin da tempi antichi, desiderano continuare a testimoniare lo spirito di apertura e rispettoso dialogo che distingue questa terra”. Commovente e gioioso l’incontro del papa con i religiosi, in cattedrale, l’ultimo giorno della visita, sotto lo sguardo di un’icona di Maria, Madre della Grande Steppa.

Il papa in Cina. Cosa può significare per lo scacchiere geopolitico orientale? Può essere un fattore di distensione nei rapporti con l’Occidente?

Dove arriva il papa arriva un pellegrino di pace, e la disponibilità, oltre che la volontà, di andare a Pechino (come del resto a Mosca) Francesco l’ha confermata in più di un’occasione, compreso il volo verso Nur-Sultan, quando a tu per tu con un giornalista ha ribadito di essere pronto a visitare la Cina, che peraltro in Kazakistan, continua a investire risorse importanti, soprattutto nel settore energetico. Proprio nei giorni in cui papa Francesco era a Nur Sultan, il presidente cinese Xi Jinping era nella capitale kazaka per incontrare Tokaev, dopo aver già visto Putin in Uzbekistan, ma un incontro con il papa non era in agenda, né si sono create le condizioni perché potesse avvenire. Papa Francesco, del resto, si è sempre detto disponibile, pronto e aperto ad ogni incontro, ma alle condizioni opportune, al momento giusto. La Cina è un gigante, ha detto alla conferenza stampa di rientro dal Kazakhstan, ha ricordato la commissione bilaterale vaticano-cinese che sta andando bene, anche se lentamente, “perché il ritmo cinese è lento”, ma sempre, con il dialogo, “si fanno passi avanti”.


×

Iscriviti alla newsletter