Il problema basico che dà origine alla progressiva espansione della chirurgia plastica-estetica va rinvenuto, accanto alla spasmodica ricerca dell’eterna giovinezza in taluni, in una diffusa vera e propria forma, più o meno accentuata, di dismorfofobia, ovvero di preoccupazione per un difetto nell’aspetto fisico, totalmente immaginario o, pur presente in manifestazioni minimali, ma che viene ingigantito. L’intervento di Vito Tenore, presidente di Sezione della Corte dei conti e docente SNA
La chirurgia plastica/estetica ha ormai assunto diffusione e familiarità pari a quella curativa in senso stretto. In realtà questa specializzazione ha due aree di intervento: quella ricostruttiva (tesa ripristinare l’integrità corporea di un paziente mancante per ragioni congenite o per traumi) e quella estetica (tesa a limare, smussare e migliorare i segni del tempo).
Come è noto, l’area ricostruttiva rientra nei consueti binari della cura di una “malattia”, mentre l’area estetica non interviene su una “malattia” in senso tecnico, ma sul “benessere psico-fisico” del paziente (pur sempre espressivo del concetto di “salute”), con interventi tecnicamente chirurgici, ma espressivi anche di talento estetico e quasi artistico, oltre che di ricerca, quasi psichiatrica, dei desiderata migliorativi del paziente e delle sue motivazioni interiori che lo/la spingono a sottoporsi ad una “trasformazione”.
La chirurgia plastica-estetica si inserisce infatti nel sottile confine tra la mancata patologica accettazione del sé e il sano desiderio di vedersi migliorati, cercando di offrire uno strumento utile a risolvere un problema o una situazione, in molti casi, di disagio interiore ancor prima che esteriore.
Può dunque a nostro avviso definirsi “serio professionista” solo un chirurgo plastico che sappia coniugare doti tecniche a senso estetico e a capacità di comprensione del paziente, ma soprattutto che sappia ispirare le proprie scelte, facendolo ben comprendere al cliente, al “senso del limite”: se l’arte (pittura, scultura, musica, danza) può permettersi strappi, estremismi, provocazioni, sperimentazioni, la medicina, soprattutto quella estetica che non sempre interviene su “malattie”, ma sul più evanescente “benessere psico-fisico” del paziente, non deve mai stravolgere i canoni basici dell’essere umano, il decoro estetico della persona, le leggi del tempo!
In perfetta sintonia con il nostro enunciato, recente dottrina (Toppetti) fa riferimento a tre concetti chiave: trasformazione, affidamento, limite. Tale studio rimarca come il trasformare (il “plasmare”) un essere umano, che affida la propria integrità ed armonia interiore ad un chirurgo plastico del quale ha fiducia, presenta rischi rilevanti in quanto “un uomo che plasma un altro essere umano corre, inevitabilmente il rischio di scivolare in un delirio di tipo superomistico, determinando conseguenze gravi in danno, oltre che del paziente, anche di sé stesso e della categoria professionale a cui appartiene”. Da qui “il limite”, ovvero la soglia non valicabile né dal chirurgo plastico, né dal paziente, ovvero quella dettata non solo dai limiti tecnici della scienza medica (traguardi estetici non raggiungibili dall’essere umano e dai suoi strumenti tecnici), dai rischi di alcuni interventi (conseguenze fatali invalidanti, cicatrici, recidive) e dalla tenuta fisica-anagrafica del paziente (che sconsiglia o vieta taluni interventi), ma anche del decoro, del senso del rispetto di se stessi, ancor prima che del comune sentire estetico e dell’ordinario senso del ridicolo.
Non tutti i problemi, in punto di “limiti”, sono risolvibili attraverso il consenso informato, che attiene ai più palpabili profili giuridici e serve innegabilmente a tutelare ambo le parti in ordine al solo e limitato profilo giudiziario. Infatti, il rischio di un risultato estetico psicologicamente non gradito o oggettivamente sgradevole va prevenuto attraverso non solo il suddetto consenso informato, ma con un dialogo profondo e prolungato tra chirurgo e paziente, inspirato, nel medico, da saggezza, prudenza, perspicacia e buonsenso, canoni tesi a discernere capricci estemporanei del paziente da suoi profondi e puntuali desiderata migliorativi e, soprattutto, tesi a far ben comprendere al paziente il senso del limite.
Un utile ausilio alla comprensione corretta e veritiera delle ambizioni estetiche del paziente, e ad una corretta informazione sulle ricadute anche psicologiche di una trasformazione fisica, potrebbero venire al chirurgo plastico dalla collaborazione con uno psichiatra negli incontri pre-operatori con il paziente, ma anche con un incremento delle ore di insegnamento di psichiatria nella specializzazione post universitaria e nell’aggiornamento obbligatorio professionale del chirurgo plastico.
Il senso del limite, perso in molti altri campi delle relazioni umane (famiglia, lavoro, rapporto tra colleghi, politica, linguaggio, esternazioni telematiche, condotte condominiali e nel traffico etc. etc.), ha dunque una portata più ampia, e direi alta, non limitata cioè al solo profilo giuridico. Esperienza di vita, fatta di incontri e di osservazioni personali o televisivi di “prodotti chirurgici” maschili, ma soprattutto femminili, insegna a noi tutti, oserei dire “plasticamente” (qui d’uopo è l’espressione), che sovente il ben percepibile senso del limite è stato invece violato e travalicato, e di molto, dal combinato-disposto di chirurgo e paziente, che si traduce in esiti estetici grotteschi e persino clowneschi, frutto di un incomprensibile (e in alcuni casi ingiustificabile) accanimento chirurgico avente devastanti ricadute psicologiche oltre che estetiche.
L’ambizione di assumere le fattezze (le labbra, gli occhi, il naso, il seno, il fondoschiena) di alcuni modelli cinematografici o televisivi (a loro volta frutto di sapienti interventi estetici) porta talvolta ad esiti tragicomici in contesti familiari, condominiali, lavorativi e sociali: la mera illusione di poter “replicare” taluni esseri umani, ritenuti “modello estetico”, deve essere ben prospettata come tale da un serio chirurgo plastico.
Tale peculiare “concorso di persone” nel risultato farsesco vede, a nostro avviso, una palese prevalenza di responsabilità del chirurgo plastico proprio per la asimmetria delle posizioni tra medico (che fissa i limiti) e paziente (che induce a superarli) e per la deontologia che deve ispirare le scelte di un sanitario (che impone una doverosa resistenza al superamento dei limiti), rinunciando a pur appetibili introiti pecuniari. E ciò vale soprattutto per pazienti molto giovani (la chirurgia plastica ha ormai raggiunto gli adolescenti, segno di evidente insicurezza delle nuove generazioni) o per quelli c.d. “seriali”, ovvero che hanno con il chirurgo plastico la stessa familiarità che il cittadino medio ha con il proprio medico di base.
Il superamento dei limiti, tecnici (interventi low cost in “supermercati della chirurgia plastica”), estetici (azzardi in modifiche radicali dei tratti somatici e delle fattezze corporee) e psicologici (disattenzione totale alle ricadute interiori del paziente), nel plasmare un essere umano discende anche dalla fatale concorrenza commerciale tra professionisti del bisturi, soprattutto dopo la scomparsa del divieto di pubblicità (anche comparativa) e, soprattutto, dei limiti tariffari derivante da normative comunitarie, fatalmente recepite nel 2012 dal legislatore nazionale. La avidità, vizio profondo e inestirpabile dell’essere umano, porta a strappi etici, e quindi estetici, rilevanti in taluni professionisti, che solo un Ordine professionale vigile ed attento può attenuare con una sensibilizzazione formativa e deontologica.
L’esercizio dell’arte medica, oltre che competenza, richiede dunque etica, “etica del limite”. E questo requisito basilare – quasi un “prerequisito” richiesto per l’appartenenza a qualsiasi micro-ordinamento (richiamando le categorie del Santi Romano sulla pluralità degli ordinamenti), ovvero richiesto a notai, avvocati, architetti, ingegneri, pubblici dipendenti, magistrati, militari, poliziotti, ecclesiastici etc. etc. – per l’attività del chirurgo plastico è particolarmente fondante a causa delle profonde implicazioni esistenziali che ha un intervento di miglioramento, o comunque di “modifica”, dell’apparenza esteriore di un essere umano, destinata ad incidere, e in modo durevole, anche sulla interiorità del paziente e sulla sua vita sociale.
L’essere umano è anche ciò che fisicamente appare a propri occhi e a quelli degli altri! E questa semplice constatazione si arricchisce di tante implicazioni se tale apparenza esteriore è il frutto di una trasformazione diversa da quella graduale e naturale del tempo, ovvero di quella chirurgica, rapida e spesso molto invasiva e, come tale, da interiorizzare con maggior difficoltà.
Ma oltre a più invasivi e “trasformanti” interventi di chirurgia al volto, al naso, mammaria, della calvizie, addominale, anche (ormai) più routinari interventi con acido ialuronico o tossina botulinica intervengono sull’evoluzione estetica e storica del corpo umano, trasformandolo, oppure più garbatamente, accompagnandone (e rallentandone, ma solo agli occhi) il fisiologico invecchiamento, rendendo anche più complessa o meno intuitiva, all’esterno, la comprensione dell’animo umano del proprio interlocutore se è vero, come spesso fondatamente si dice, che il corpo, e lo sguardo in particolare, riflettono lo spirito.
E quanto detto vale sia per la chirurgia ricostruttiva, che riguarda vittime di vari sinistri o accidenti, sia, e soprattutto, per la sempre più diffusa chirurgia estetica, che si inserisce, con le sue straordinarie tecniche, nell’eterna lotta dell’uomo contro le inesorabili leggi del tempo, che il bisturi prova a rallentare senza poterle stravolgere o “abrogare”.
Da qui l’attenzione posta da tutte le più autorevoli associazioni di chirurghi plastici ed estetici alla deontologia dell’associato, predisponendo Codici etici che si aggiungono e completano i precetti fondanti del Codice deontologico valevole per ogni medico elaborato dalla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri.
Ma la chirurgia plastica, che ha fatalmente, più di altre branche della medicina, implicazioni sociali, sociologiche, filosofiche, estetiche, psicologiche e persino psichiatriche, ha anche originato, per il più freddo e settoriale giurista, una serie crescente di contenziosi civili (e talvolta penali) alla luce del quadro normativo (legge Gelli-Bianco n.24 del 2017) e della ricca giurisprudenza intervenuta.
Premesso che la magistratura è tendenzialmente ben cosciente della complessità dell’ars medica e che la (grave) colpevolezza va vagliata in giudizio soprattutto alla stregua della osservanza o meno da parte del sanitario delle Linee Guida e delle buone pratiche clinico-assistenziali (art. 5, l. n. 24 del 2017), le ragioni della crescita delle citazioni del personale medico (e spesso dei relativi datori di lavoro, ospedali pubblici o cliniche private) in sede risarcitoria[1] vanno ricercate in varie concause, così sintetizzabili:
- a) aumento notevole nel nostro sistema delle ipotesi di danno da condotta omissiva, anche nel comparto medico, dovuto ad un crescente numero di norme e, in Sanità, di linee guida e parametri tecnici, che impongono al cittadino, alla P.A. e a professionisti (tra cui medici ed infermieri) l’osservanza di un complesso rilevantissimo di “regole”, la cui gravemente colposa violazione si traduce spesso in danni arrecati a terzi;
- b) crescente e maggiore litigiosità-aggressività nei confronti del prossimo (in primis della P.A., soprattutto quella Sanitaria e di professionisti ritenuti abbienti o comunque titolari di polizze assicurative) del cittadino italiano, più attento rispetto al passato, anche grazie ai quasi 300.000 avvocati (ivi compresi quelli stabilizzati, titolatisi all’estero) che operano nel nostro Paese e ad una crescita culturale media (che implica maggior consapevolezza dei propri diritti, anche risarcitori), a rivendicare voci di danno in situazioni “classiche”, un tempo maggiormente tollerate con pacata rassegnazione, per sudditanza psicologica o, semplicemente, per “quieto vivere” (es. malpractice medica, cadute in buche stradali, danni da alberi stradali o da animali randagi, sinistri scolastici, etc.);
- c) cattiva difesa della P.A., soprattutto quella Sanitaria, in molti contenziosi risarcitori verso terzi, sia a causa di carichi di lavoro poderosi, che impediscono alle Avvocature pubbliche interne (spesso sotto organico) di tutelare adeguatamente il proprio cliente-P.A. attraverso puntuali memorie difensive, richieste istruttorie consulenziali autorevoli e mirate, appelli necessari e tempestivi a fronte di sentenze di condanna erronee o opinabili, sia a causa della mancata partecipazione al giudizio civile del medico autore della condotta asseritamente dannosa, potendo il paziente (o i suoi eredi), evocare in lite la sola Azienda di appartenenza, non sempre ben difesa (come avrebbe fatto il legale del medico o dell’infermiere), o propensa a transazioni che il sanitario non avrebbe accettato; su quest’ultimo problema, la legge Gelli n.24 del 2017 ha cercato di intervenire a tutela del medico, consentendone la opportuna partecipazione al giudizio civile e a transazioni di cui deve essere notiziato;
- f) deresponsabilizzazione difensiva di alcuni medici, ma soprattutto di molte Aziende ospedaliere, per la presenza di polizze assicurative, che portano spesso a transazioni molto opinabili, condotte dalle stesse Compagnie con logiche pragmatiche, a fronte di casi di dubbia responsabilità medica, con conseguente successiva esposizione del medico a ritorni negativi di immagine sul piano professionale e relazionale e, soprattutto, a rivalse in sede civile o contabile per le intervenute transazioni operate dalla struttura (privata o pubblica) di appartenenza, foriere di esborsi non coperti da assicurazione per le forti franchigie che le connotano;
- g) complessità e, in molti casi, incertezza e aleatorietà dell’intervento curativo: nonostante il progresso scientifico, l’affinamento delle linee guida e la crescente specializzazione dei sanitari, l’esito curativo di un intervento o di una terapia, pur fortemente preteso dal paziente, risente di moltissime variabili personali (età avanzata del paziente, sua debolezza fisica, pregresse patologie, etc.), ambientali (luogo del ricovero poco attrezzato, germi e infezioni in sale operatorie e reparti, carenze di organico o inesperienze del personale etc.) o fisiologiche nell’ars medica (il parto, ad esempio, nonostante sia il gesto più naturale e più praticato in un ospedale, presenta sempre un ontologico rischio derivante da molte concause). Questo problema si accentua per la chirurgia plastica, connotata da valutazioni estetiche sugli esiti di taluni interventi da parte del paziente-cliente non soddisfatto del risultato, talvolta fondatamente, ma spesso per una malriposta fiducia in interventi miracolistici del pur talentuoso medico.
A fronte del generalizzato crescente contenzioso, prevalentemente civile, nei confronti di medici e strutture ospedaliere pubbliche e private, che porta, come conseguenza, alla c.d. medicina difensiva, picchi particolarmente significativi si riscontrano nei confronti di talune specializzazioni: ortopedici, anestesisti e chirurghi plastici sono notoriamente esposti più di altri ad azioni civili innanzi ai nostri Tribunali, con conseguente lievitazione dei poderosi costi assicurativi.
Il contenzioso in materia si incentra di regola sul concetto di “esecuzione a regola d’arte”, alla base delle decisioni della Magistratura in materia di interventi di chirurgia plastica ed estetica.
Ma il problema basico che dà origine alla progressiva espansione della chirurgia plastica-estetica va rinvenuto, accanto alla spasmodica ricerca dell’eterna giovinezza in taluni, in una diffusa vera e propria forma, più o meno accentuata, di dismorfofobia, ovvero di preoccupazione per un difetto nell’aspetto fisico, totalmente immaginario o, pur presente in manifestazioni minimali, ma che viene ingigantito, con conseguente ricorso alla chirurgia estetica in luogo di una più pertinente psicoterapia cognitivo-comportamentale.
Ci sia consentito chiudere queste riflessioni con una considerazione “più alta” e che si pone alla base di ogni consequenziale e “prosaico” risvolto giuridico e risarcitorio.
Non va mai dimenticato, soprattutto per il chirurgo plastico ed estetico, il già segnalato momento relazionale con il paziente.
Ogni sanitario deve essere sempre cosciente della sofferenza, anche interiore, del paziente (e, in molti casi, dei suoi parenti), della asimmetria nel rapporto con lo stesso (evidente è infatti la situazione di inferiorità psicologica, ancor prima che fisica, in cui versa il paziente) e curare, anche con un sorriso o una parola di incoraggiamento o di presa di coscienza di fisiologici limiti estetici o del fatale passare del tempo, lo spirito, ancor prima che le funzioni vitali: è un dovere non solo deontologico, ma esistenziale ed etico.
Dimenticare, anche un solo giorno, questo aspetto della “missione medica”, significa aver abdicato non solo ai propri doveri, ma all’essere “uomo” o “donna”. Del resto, l’art. 20 del Codice deontologico dei Medici del 2014 sancisce che “La relazione tra medico e paziente è costituita sulla libertà di scelta e sull’individuazione e condivisione delle rispettive autonomie e responsabilità. Il medico nella relazione persegue l’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione comprensibile e completa, considerando il tempo della comunicazione quale tempo di cura”, e l’art. 33 soggiunge che “Il medico garantisce alla persona assistita o al suo rappresentante legale un’informazione comprensibile ed esaustiva sulla prevenzione, sul percorso diagnostico, sulla diagnosi, sulla prognosi, sulla terapia e sulle eventuali alternative diagnostico-terapeutiche, sui prevedibili rischi e complicanze, nonché sui comportamenti che il paziente dovrà osservare nel processo di cura. Il medico adegua la comunicazione alla capacità di comprensione della persona assistita o del suo rappresentante legale, corrispondendo a ogni richiesta di chiarimento, tenendo conto della sensibilità e reattività emotiva dei medesimi, in particolare in caso di prognosi gravi o infauste, senza escludere elementi di speranza”.
Dunque, per un medico, soprattutto se chirurgo plastico ed estetico, il tempo di relazione e di comunicazione è tempo di cura! Ma per un chirurgo plastico il tempo di relazione e comunicazione assume una ulteriore valenza, ovvero quella di rendere edotto il paziente del “senso del limite”, a cui si sono volute dedicare queste riflessioni.