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Berlusconi ha perso due occasioni ma… Il percorso obbligato verso il governo secondo Cicchitto

Di Fabrizio Cicchitto

Per evitare il peggio che ricadrebbe su tutti senza eccezione alcuna, il percorso è obbligato: Berlusconi deve consentire la formazione di un governo di centrodestra presieduto da Giorgia Meloni al massimo livello della competenza, del garantismo, dell’europeismo e della solidarietà occidentale con l’Ucraina

Siccome, a parte le differenze politiche, l’attuale sistema elettorale denominato Rosatellum ha svolto un ruolo essenziale nei risultati elettorali, dove è netta la maggioranza parlamentare di centrodestra, ma non altrettanto la maggioranza assoluta dei votanti, il centrodestra è stato compatto nel voto, malgrado le sue profonde differenze interne, mentre invece tutti gli altri non si sono potuti e voluti aggregare.

Non si deve dimenticare che la responsabilità di questo sistema va messa tutta sulle spalle del Movimento 5 Stelle e del Pd: i primi posero come condizione per il governo Conte 2 il taglio dei parlamentari, il secondo pur di tornare al governo accettò quella misura destabilizzante e nei due anni successivi, anche con Enrico Letta segretario, non hanno affatto insistito per ottenere una riforma elettorale.

Ciò detto per il passato, il presente è costituito innanzitutto da una gravissima situazione mondiale dove per un verso la pandemia (di cui ha la totale responsabilità la Cina) e successivamente l’invasione russa dell’Ucraina hanno sconvolto il quadro internazionale e sono piombate sul sistema politico italiano.

Per una combinazione fortuita di circostanze, e per l’iniziativa politica di Renzi, l’Italia si è trovata ad affrontare la somma delle due vicende con un governo di parziale unità nazionale presieduto da Draghi, cioè una personalità della massima competenza tecnica e anche di notevole intelligenza politica. La sommatoria fra un contagio e una guerra ai confini dell’Europa ha provocato anche una drammatica situazione economico-finanziaria destinata nel futuro ad accentuarsi.

Con un contesto di questo tipo la razionalità e gli interessi dell’Italia avrebbero dovuto portare a prolungare al massimo la presidenza Draghi e anzi a tentare di riproporla in forme nuove anche nella successiva legislatura, cioè nell’attuale. Invece è avvenuto esattamente il contrario per il calcolo di partito fatto da due delle forze in campo, cioè da Conte per il M5S e da Salvini per la Lega e perché la terza, cioè Forza Italia, era da tempo totalmente a rimorchio di Salvini anche perché chi di fatto l’ha diretta (Tajani e Ronzulli) indipendentemente da Berlusconi prevedeva che sarebbe stata la Lega a stravincere le elezioni e si è messa a rimorchio di essa.

Invece al momento della crisi del governo Berlusconi ha perso la sua occasione politica: avrebbe dovuto bloccare Salvini, salvare Draghi, ridiventando per quella via, una via politica, nuovamente il leader del centrodestra, per di più benedetto da larga parte del mondo politico e da tutto il mondo economico e finanziario in Italia e ringraziato dall’Unione europea con particolare riferimento al Ppe.

Una volta che si è arrivati alle elezioni si è visto che le cose erano molto più complicate del previsto per il ritorno ad un sano bipolarismo. In ogni caso certamente il centrodestra si è ricompattato al netto di enormi differenze sul piano della contesa della leadership personale e anche di differenze politiche e programmatiche. Sul piano geopolitico il centrodestra è addirittura diviso fra l’atlantismo secco di Giorgia Meloni, il putinismo esibito fino a qualche tempo fa da Salvini e la profonda ambiguità di Berlusconi, attenuata dall’atlantismo e dall’europeismo di Antonio Tajani.

In ogni caso, malgrado questo e altro, il centrodestra avendo letto e capito la legge elettorale l’ha applicata alle elezioni. Non altrettanto si può dire del cosiddetto centrosinistra dove il Pd o almeno larga parte di esso, tranne Base Riformista (Guerini, Lotti), riteneva abbastanza automatico e normale l’alleanza con il partner di governo costituito dal Movimento 5 Stelle. Senonché ad un certo punto nel M5S Giuseppe Conte, all’opposto di Di Maio, anche di fronte a sondaggi ogni volta più disastrosi, nel suo organico trasformismo ha deciso che, per salvare almeno parte del suo esercito in rotta, l’unica via era quella di un ritorno alle origini, cioè ad un partito antigovernativo, populista, giustizialista, filoputinista e comunque contrapposto al Pd.

Non parliamo poi di Draghi considerato da Conte e dal suo organo di stampa Il Fatto il nemico pubblico numero 1. Detto fatto, Conte ha rotto con il governo e subito Salvini si è inserito con Berlusconi al seguito. A quel punto però non solo il cosiddetto centrosinistra, ma lo stesso campo largo, si è rivelato impraticabile perché la rottura del Movimento 5 Stelle non è solo un imperdonabile errore tattico commesso da compagni che sbagliano, ma una scelta politica e strategica a tutto campo.

Il Movimento 5 Stelle risulta organicamente “altro” dal Pd, specie se questo scegliesse di essere un partito coerentemente riformista. In ogni caso Enrico Letta, partito con il “campo largo”, si è ritrovato nel bel mezzo di un campo minato, ha dovuto rompere con il M5S per la semplice ragione che esso ha rotto con il Pd, avendo scelto di assumere nei suoi confronti una linea apertamente concorrenziale e conflittuale. A quel punto però Enrico Letta e il Pd si sono dati la zappa sui piedi procedendo a zig-zag. La logica politica avrebbe voluto che Enrico Letta aggregasse intorno al Pd un polo riformista costituito da Calenda, da Renzi e dalla Bonino.

La sua prima mossa è stata nella direzione naturale, quella dell’alleanza con Calenda e con la Bonino, con la singolare esclusione di Renzi. Ma la seconda mossa è stata disastrosa, perché all’acqua santa ha aggiunto il diavolo, cioè la componente massimalista e neutralista rappresentata da Fratoianni e da Bonelli. A quel punto è saltato tutto non per il tradimento di Calenda, ma perché questi con due giorni di ritardo ha capito che l’alleanza con Fratoianni sarebbe stata la sua rovina politica.

Così il Pd è andato alle elezioni senza una vera coalizione, ma con un accrocco del tutto contraddittorio. Quindi ha perso le elezioni in partenza, prima ancora che esse si celebrassero. Non a caso dopo le elezioni il Pd pur essendo fra gli sconfitti quello che aveva perso meno voti è entrato seccamente in crisi perché, diversamente da coloro che avevano perso molti voti (la Lega, FI e lo stesso M5S), aveva perso sul piano seccamente politico.

Però la paradossalità della situazione non si è fermata qui. Infatti non appena il centrodestra ha vinto le elezioni immediatamente è imploso ed è imploso nel modo peggiore, cioè sul piano politico che su quello dei rapporti personali. Alla radice di questa implosione ci stanno vari elementi. In primo luogo la vittoria del centrodestra è tutta fondata sull’esplosione di Giorgia Meloni e di Fratelli d’Italia come partito, mentre la Lega e Forza Italia hanno addirittura dimezzato i voti. Anche in seguito a questo risultato elettorale si è verificato un cambio totale nella gerarchia politica interna al centrodestra: a dare le carte non è stato più Berlusconi, ma Giorgia Meloni.

Infatti il governo in un momento difficilissimo si fonda su Giorgia Meloni, sulla scelta di ministri di alto livello e su un programma e la sua gestione in grado di fare i conti con recessioni, inflazione, bollette, guerra avendo un rapporto positivo con un’Unione europea parte della quale è molto diffidente, per non dire ostile. A questo Giorgia Meloni ha chiesto ai suoi partner i pieni poteri. Sorprendentemente Salvini si è subito adeguato, chiedendo ovvie contropartite politiche e di potere, e invece Berlusconi e FI sono implosi andando incontro ad una autentica disfatta.

Diciamoci la verità, Berlusconi ha perso due notevoli occasioni politiche: come abbiamo già visto quando non si è assunto il ruolo di salvatore di Draghi e adesso quando, rientrato trionfalmente al Senato dopo un’ingiusta esclusione, non ha celebrato la sua vittoria, ma ha rovinato tutto attaccando a testa bassa la Meloni per un puntiglio politicamente inesistente. In seguito a questo autentico colpo di testa il centrodestra ha vissuto per alcuni giorni una vicenda al limite del grottesco che però rischia di diventare drammatica alla luce di tutte le difficoltà con cui il Paese si deve misurare.

Berlusconi che a nostro avviso ha alle spalle un passato straordinario perché nel 1994 ha salvato la democrazia in Italia da una deriva giustizialista, ha rischiato di concludere in modo non appropriato la sua attività politica, ma non è stato l’unico però ad andare incontro ad una crisi di nervi. Luciano Violante ha dato prova di lucidità e di razionalità rispondendo in modo assai serio al buon discorso fatto al Senato da Ignazio La Russa.

Invece Enrico Letta, solitamente pacato e razionale, usando gli aggettivi perverso e incendiario per definire le elezioni di La Russa e di Fontana è venuto meno a un rigore istituzionale che l’ha sempre caratterizzato. A questo punto, però, per evitare il peggio che ricadrebbe su tutti senza eccezione alcuna, il percorso è obbligato: Berlusconi deve consentire la formazione di un governo di centrodestra presieduto da Giorgia Meloni al massimo livello della competenza, del garantismo, dell’europeismo, della solidarietà occidentale con l’Ucraina.

Per raggiungere questo risultato, a nostro avviso, c’è bisogno anche della saggezza storica del Berlusconi dei tempi migliori. Da parte sua Enrico Letta dovrebbe contribuire a far uscire il Pd dalla crisi come un partito riformista, garantista, atlantico e non come un partito allo sbando addirittura suscettibile di essere conquistato da una sorta di Opa negativa da parte di Conte sostenuto da un pezzo della vecchia ditta postcomunista di D’Alema e Bettini, rafforzata dai nuovi virgulti come Orlando e Provenzano.

In questo quadro così complesso e difficile il terzo polo può svolgere un ruolo fondamentale se esso riesce ad andare al di là delle leadership appaiate di Calenda e di Renzi e di diventare un autentico polo riformista in grado di avanzare proposte innovative e riformiste sul piano programmatico e di essere un punto di riferimento esterno per il dibattito nel Pd.

 

 

 

 

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