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Settimana corta, può essere sostenibile in Italia? Risponde l’avv. Fava

La questione è tornata alla ribalta in seguito all’iniziativa del Gruppo Intesa Sanpaolo, il quale, ha deciso di sperimentare tale modifica dell’orario di lavoro per i propri dipendenti. L’innovazione potrebbe costituire per il futuro una best practice per ulteriori aziende e/o settori, ma… L’analisi di Gabriele Fava, componente del Consiglio di presidenza della Corte dei Conti

È recentemente entrata nel dibattito pubblico la possibilità di sperimentare anche nel nostro Paese l’introduzione della c.d. “settimana corta”. La questione è tornata alla ribalta in seguito all’iniziativa del Gruppo Intesa Sanpaolo, il quale, ha deciso di sperimentare tale modifica dell’orario di lavoro per i propri dipendenti. L’innovazione portata da Intesa, alla quale si guarda con estremo interesse, potrebbe, infatti, costituire per il futuro una best practice per ulteriori aziende e/o settori.

È bene specificare sin da subito che con il termine settimana corta si intende la settimana lavorativa di 4 giorni invece di 5. In sostanza la settimana corta prevederebbe, nella sua teorizzazione iniziale, che i dipendenti lavorino meno ore settimanali a parità di retribuzione. Questo, a detta dei sostenitori della sua introduzione, comporterebbe un aumento della produttività dei dipendenti e, in contemporanea, il miglioramento del loro equilibrio vita-lavoro. Nel tempo sono emerse delle alternative alla riduzione tout court del monte ore settimanale complessivo che vedono, in sostanza, una pura e semplice rimodulazione di tale monte ore su meno giorni, di fatto andando ad allungare la prestazione nei giorni di lavoro così da controbilanciare la riduzione dei giorni lavorati (soluzioni prediletta, tra gli altri, nella recente ipotesi avanzata da Intesa).

Ulteriore punto sottolineato dai sostenitori della settimana corta è l’impatto che potrebbe avere sui costi aziendali e sull’ambiente in generale. Lavorare un giorno a settimana in meno si tradurrebbe, infatti, in risparmio su energia, riscaldamento ecc., tutti temi di straordinaria centralità nella presente fase economico-sociale caratterizzata dall’aumento esponenziale dei prezzi del comparto energia.

L’eventuale introduzione anche nel nostro paese della c.d. settimana corta si inserisce in un dibattito economico-giuridico già ampiamente presente all’interno dei paesi europei. La settimana corta, infatti, è in fase di sperimentazione in molti stati del vecchio continente come Belgio, Spagna e Regno Unito.

Il primo Stato a sperimentare la settimana corta su larga scala, difatti, è stata l’Islanda tra il 2015 e il 2019. I dipendenti, in questo caso, si sono visti ridurre le ore lavorative settimanali a condizioni inalterate dal punto di vista del salario e dei benefit. I risultati sperati dal governo islandese si sono, in quel caso, avverati, con un generale aumento della produttività dei dipendenti inclusi nella sperimentazione.

Ed è proprio sulla tematica della produttività che si gioca la partita della potenziale convenienza (o meno) dell’introduzione di una simile sperimentazione anche in Italia.

Secondo i dati Ocse 2021, l’Italia è uno dei paesi industrializzati del mondo che lavora in proporzione di più, ma che si contraddistingue, al contempo, per una bassa produttività. Tra i grandi paesi europei, l’Italia è quello in cui si lavora per più ore, con 1.668,5 ore lavorate in media da ogni lavoratore in un anno. Di contro, la produttività risulta non essere in linea con i grandi competitor del continente. In Italia ogni lavoratore produce in media una ricchezza annuale in termini di Pil pari a 70.894 euro, contro i quasi 80 mila in Germania e gli 86 mila in Francia. L’Italia è anche sotto la media dell’area dei paesi che adottano l’euro, pari a 76 mila euro. Non solo il valore è basso rispetto agli altri paesi europei, ma a confronto cresce meno: rispetto a 20 anni fa la produttività del lavoro in Italia è cresciuta del 31%, contro il 51% della Germania e il 50% della Francia. Anche in Spagna, che ha valori complessivi più bassi, è cresciuta del 55%.

Qualora, quindi, l’introduzione della settimana corta non sia accompagnata da un efficiente impianto produttivo in grado di generare produttività, probabilmente il rischio è che ciò non si traduca in miglioramenti macroscopici in termini di competitività sui mercati internazionali.

Se, infatti, è pur vero che ridurre il monte ore di lavoro a stipendi invariati gioverebbe ai lavoratori in termini di recupero dallo stress e di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, senza un aumento di produttività delle (minori) ore lavorate, non si genererebbe alcun effetto positivo per le imprese, di fatto scaricando il costo dell’intera operazione di riduzione dell’orario di lavoro si di queste.

Ciò detto, nell’era post pandemica, caratterizzata da un rinnovato obiettivo di guardare all’organizzazione del lavoro in termini più flessibili (si pensi allo smart working), la sperimentazione della settimana corta si pone come uno dei trend topic europei. L’esito dell’introduzione di una simile misura in Italia rimane, tuttavia, incerto nei risultati conseguibili, date le valutazioni eminentemente economiche che tale proposta comporterebbe.

Senza dubbio, vale la pena di sottolineare il fatto che, anche in Italia, stiano emergendo iniziative in tale direzione e che vi siano imprese le quali, con l’intento di guardare al futuro del mondo del lavoro, intendono sperimentare questa nuova modalità di lavoro. Questo potrebbe effettivamente essere la strada da seguire; una strada che, consentendo di procedere per step, permetta di comprendere quale possa essere l’impatto sulla produttività di una simile introduzione con esempi mirati e specifici che, ove funzionanti, potranno fungere da best practices da riproporre in altri settori.

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