Salari e occupazione, energia e ambiente, istruzione, sanità, collocamento internazionale sono le aree cruciali per l’Italia, spiega l’ex vicedirettore di Aisi e Aise. Sulle fonti di approvvigionamento dice: “La dipendenza da un solo fornitore è un fatto incompatibile con la sicurezza nazionale in generale”
Paolo Poletti è attualmente presidente di Sicuritalia Security Solutions, azienda del gruppo Sicuritalia, specializzata nella business economic e security intelligence, nelle investigazioni contro lo spionaggio industriale e nella sicurezza logica, nonché cibernetica in particolare. Un passato di oltre trent’anni nella Guardia di finanza, raggiungendo il grado di generale di divisione, e dal 2008 al 2017 nell’intelligence: prima come vicedirettore dell’Aisi (Agenzia per le informazioni e la sicurezza interna), poi, sempre come vicedirettore, dell’Aise (Agenzia per le informazioni e la sicurezza esterna).
Intervistato da Formiche.net individua cinque macro-temi per la sicurezza nazionale dell’Italia: salari e occupazione, dunque anche politica industriale; energia e ambiente; istruzione; sanità; collocamento internazionale.
“L’intelligence economica” di Carlo Jean e Paolo Savona sta per compiere 12 anni. È un libro che ha contribuito in maniera importante al dibattito su questa disciplina. Perché è fondamentale?
Per intelligence economica si intende ciò che riguarda imprese e Stati. Ed è fondamentale perché l’intelligence è, per definizione, raccolta e analisi di dati per avere quadri previsionali in vari campi, a partire da quello industriale. Qualsiasi governo ne ha bisogno per assumere delle decisioni. Basti pensare che ci sono anche Stati, come la Spagna, che hanno sistematizzato l’intelligence economica pubblicando dottrine.
La Spagna è uno dei Paesi che hanno un servizio d’intelligence unico, il Centro Nacional de Inteligencia. Se ne parla anche in Italia in vista di una possibile riforma del comparto. Qual è la sua opinione?
Il servizio unico risponde a un dato di fatto: è difficile oggi distinguere ciò che è interno e ciò che esterno perché nessun fenomeno è ormai perimetrabile a una dimensione unica.
Il macro tema che oggi appare più urgente è quello che riguarda energia e ambiente. Esserci legati fortemente alle forniture provenienti da un Paese come la Russia è stato l’errore?
Abbiamo pagato e stiamo pagando ancora l’errore di aver determinato, noi come molti altri grandi Paesi, un’eccessiva dipendenza dal gas russo. In generale, la dipendenza da un solo fornitore è un fatto incompatibile con la sicurezza nazionale.
Qual era la situazione prima dell’invasione russa dell’Ucraina?
Dopo anni di surplus energetico, non abbiamo considerato che con la ripresa post Covid-19 ci sarebbe stati problemi di approvvigionamento e che la domanda asiatica sarebbe aumentata. Tutto ciò ha determinato un stress sul mercato. Inoltre, la primavera fredda nel Nord ha sconsigliato gli stoccaggi, con il gas che è stato dirottato ai consumi. Questi fattori pre crisi Ucraina avevano già messo il mercato del gas in tensione.
Al Meeting di Rimini il presidente del Consiglio Mario Draghi ha detto che il legame “che c’è tra il costo dell’energia elettrica prodotta con le rinnovabili, e quindi acqua, sole, vento, e il prezzo massimo del gas ogni giorno è un legame che non ha più senso”. È d’accordo?
Credo che piuttosto che parlare di “speculazione olandese” bisognerebbe notare come, proprio per le dinamiche del prezzo, chi sta guadagnando tantissimo da questa situazione siano i produttori di rinnovabili.
L’Italia è impegnata a diversificare le sue fonti di approvvigionamento, anche rivolgendosi a Paesi a rischio instabilità come per esempio il Mozambico. Non rischiamo di ritrovarci in difficoltà?
Diversificare i fornitori è un’assoluta necessità, soprattutto rivolgendoci ai Paesi del Mediterraneo anche per ragioni di realizzabilità dei gasdotti. Ma senza separare l’interesse politico contingente dall’interesse nazionale non si andrà mai avanti.
Esistono altre soluzioni?
Un’altra soluzione è puntare sull’idrogeno ma la transizione richiede un decennio e servirebbero accordi seri con i Paesi africani che hanno spazio, cioè i deserti, sole e vento.
Si parla sempre più spesso di decoupling, cioè disaccoppiamento tra le catene del valore statunitense e cinese, e di near-shoring, ovvero di utilizzare fornitori più vicini. Janet Yellen, segretaria al Tesoro degli Stati Uniti, usa invece il concetto di friend-shoring, basato sui valori condivisi. In che direzione stiamo andando?
La globalizzazione come l’abbiamo conosciuta è finita, e non è un fenomeno necessariamente positivo. Nel prossimo decennio le catene di produzione saranno più corte e sarà necessario produrre più vicino.
La dipendenza energetica dalla Russia e i suoi rischi vengono spesso paragonati alla dipendenza tecnologica dalla Cina. Qual è il rischio per l’Italia?
Il grande rischio è che Stati Uniti e Cina, i Paesi che producono il 40% delle nuove tecnologie ogni anno, vadano in decoupling e cerchino vie tecnologiche alternative e incompatibili fra loro. Ciò ci metterebbe noi, che siamo nel mezzo, davanti a una scelta. Per questo, per noi è importante muoverci a livello di Unione europea, evitando inutili fughe solitarie in avanti, e puntare sulle sinergie tra industrie e università.