Se la Cecenia divenne un laboratorio di morte e autoritarismo, l’Ucraina non deve essere soltanto libera, democratica ed europea, come vuole la stragrande maggioranza della popolazione. L’intervento di Matteo Angioli, segretario generale del Global Committee for the Rule of Law “Marco Pannella”
In questi giorni ricorre il ventesimo anniversario di uno dei fatti più tragici verificatisi in Russia che ha contribuito a consolidare il potere nelle mani di Vladimir Putin. La sera del 23 ottobre 2002, un commando di 40 ribelli ceceni, di cui 18 donne, entrò nel teatro Dubrovka di Mosca sequestrando circa 850 civili. I separatisti chiedevano il ritiro immediato delle forze russe dalla Cecenia e l’indipendenza della regione caucasica martoriata da un secondo conflitto iniziato nell’agosto 1999 che sarebbe terminato solo nel 2009. Il primo ebbe luogo dal dicembre 1995 all’agosto 1996.
Il 24 ottobre, dopo aver liberato 50 bambini di meno di 12 anni, i terroristi rimasero in attesa di un segnale dal Cremlino. Liberarono altri ostaggi e promisero di rilasciarne ancora se Achmad Kadyrov, il capo dell’amministrazione cecena, si fosse presentato al teatro. Kadyrov non giunse e all’alba del 26 ottobre, le forze speciali russe (FSB) pomparono nel sistema di ventilazione dell’edificio un agente chimico per far addormentare tutti gli occupanti del teatro. Ne seguì, a distanza di un’ora, un’irruzione in cui furono uccisi tutti i sequestratori.
Tra coloro che parteciparono alle non-trattative c’era Anna Politkovskaja, la giornalista di Novaja Gazeta. La sua presenza fu richiesta proprio dai ceceni in virtù delle sue indagini con cui aveva documentato i crimini e gli abusi commessi dall’esercito russo in Cecenia. La settimana successiva, Anna scrisse un toccante articolo intitolato “Ho tentato e ho fallito”. Una testimonianza di umiltà e rammarico per la consapevolezza di non essere stata all’altezza della situazione:
Sono Politkovskaja, sono Politkovskaja!”, grido verso le 14 del 25 ottobre, mentre entro nel teatro di Dubrovka sequestrato dai terroristi. Non ho esperienza, assolutamente nessuna esperienza nel negoziare con dei terroristi. L’unica cosa che ho è il desiderio di aiutare le persone in difficoltà non per colpa loro, e dato che i terroristi hanno scelto me come persona con cui parlare, non potevo rifiutare.
Soltanto la professionalità, la conoscenza e la sensibilità della Politkovskaja potevano mostrarci la spirale della scellerata disperazione e del fondamentalismo religioso come unico orizzonte di vita non più terrena in cui erano precipitati quei giovani ceceni devastati da guerre scatenate dalla madre Russia:
(…) mi ritrovo in una stanza sporca senza finestre, attigua al corridoio. C’è luce e per la prima volta riesco a vederci bene. Il capo negoziatore è un uomo di 29 anni di nome Abubakar che si presenta come vice comandante del battaglione di sovversione e intelligence. Inizialmente la conversazione è tesa. Abubakar sembra nervoso, ma poi si calma. Si arrabbia quando nel parlare della sua generazione di ceceni, quella dai 20 ai 30 anni, dico che hanno vissuto due guerre e che tutto ciò che sanno fare è combattere.
“Non ci crederai, ma per la prima volta dopo tanti anni qui ci sentiamo tranquilli”, dice.
“Qui nel teatro?”
“Sì. Moriremo qui per la libertà della nostra terra.”
“Vuoi morire?”
“Non ci crederai, ma lo desideriamo moltissimo. I nostri nomi rimarranno nella storia della Cecenia”.
Sono un negoziatore molto inesperto. Non ho idea di cosa dire. E nemmeno lui – che ha vissuto metà della sua vita senza togliersi l’uniforme militare e con un mitra in mano – sa come negoziare. Perciò continuiamo a infilarci in conversazioni sul significato della loro vita. Intanto altri ribelli si avvicinano per ascoltare.
Alla fine decidiamo che è ora di separarci. Restiamo in disaccordo su molte cose e non penso che il colloquio sia servito. Ma non sono un negoziatore. Abbiamo solo concordato che nelle prossime ore avrei portato acqua e succhi di frutta per 700 persone circa. Esco dal teatro nel silenzio totale. (…) Fa freddo, molto freddo in questo terribile teatro. Non c’è mai stato un teatro al mondo così pieno di esplosivi. Dico a me stessa: “Vai a prendere i succhi e non pensare ad altro”. Ho fatto molto o poco? Poco, ovviamente. Ma non potevo fare di più. Quando è stato lanciato l’assalto al teatro, tutti i terroristi con cui avevo parlato sono morti. E con loro sono morti 67 degli ostaggi che avevano bevuto il mio succo di frutta. Che la guerra sia dannata.
Quella delle forze speciali russe fu un’operazione a dir poco malriuscita. La sicurezza delle persone fu sacrificata sull’altare della segretezza totale e del vietato negoziare. Le autorità dichiararono di aver impiegato il gas solo otto ore dopo la liberazione dell’ultimo ostaggio, e tutt’oggi non è dato sapere di quale gas si trattasse. Molti ritengono che fosse un composto a base di fentanyl, un oppioide assai più potente della morfina.
La negazione di tale cruciale informazione impedì ai medici di intervenire tempestivamente sugli ostaggi intossicati perché non sapevano come trattarli. Di conseguenza, la maggior parte delle vittime trovò la morte non dentro, ma fuori dal teatro: soffocate nel loro stesso vomito, oppure ingoiando la lingua, o ancora asfissiate nelle ambulanze o peggio negli autobus angusti in cui i moribondi furono ammassati come bestie.
L’operato delle forze russe non è mai stato oggetto di indagini formali e le autorità hanno sempre insistito sul fatto che il gas non era in grado di provocare la morte. Addirittura, Putin insignì il vicedirettore dell’Fsb, Vladimir Pronichev, che gestì l’operazione, dell’onorificenza di Eroe della Russia. Il deputato Sergey Yushenkov, invece, tentò di aprire un’inchiesta parlamentare ma fu bloccato dalla maggioranza filo-Cremlino e nell’aprile 2003 fu assassinato con un colpo di pistola alla testa mentre rientrava a casa.
Secondo un sondaggio del 2006 realizzato dal Levada Centre – allora indipendente – il 74% dei russi non credeva del tutto della versione ufficiale degli eventi fornita dal governo. Un gruppo di familiari delle vittime e degli ostaggi sopravvissuti citò in giudizio il governo, chiedendo l’apertura di un’indagine e la desecretazione di tutte le informazioni rilevanti. Nel gennaio 2003 un tribunale moscovita respinse tale richiesta. Ma i ricorrenti non si fermarono e si rivolsero alla Corte Europea dei Diritti Umani di Strasburgo che, nel 2011, si pronunciò a favore di 64 vittime e condannò il governo russo a corrispondere loro circa un milione di euro di risarcimento. La corte ritenne che le autorità russe non avessero preparato l’operazione adeguatamente e respinse l’affermazione del Cremlino secondo cui il gas non era direttamente responsabile della morte degli ostaggi.
Ma le conseguenze dell’assalto si fecero sentire in tutto il Paese. Durante il sequestro, Putin non gradì affatto le immagini trasmesse dal canale Ntv di una manifestazione di parenti disperati degli ostaggi che lo supplicavano di esaudire le richieste dei sequestratori e di ritirare le truppe dalla Cecenia. Pochi giorni dopo, il direttore di Ntv, Boris Jordan, si licenziò e l’emittente finì sotto l’influenza del Cremlino.
Il regime di Putin era in piena costruzione e gli eventi di Dubrovka non fecero che consolidare il suo potere fondato su menzogne, corruzione, silenzio. Politkovskaja, che si era occupata della “dannata guerra” cecena – mentre leader e politici occidentali pacifisti e non erano tutti indistintamente impastati di indifferenza – sapeva benissimo che avrebbe distrutto la repubblica caucasica e ucciso ogni minima possibilità di democratizzazione della Russia. L’unico parlamentare a capirlo fu Marco Pannella che, come lei, dette voce agli esponenti democratici e nonviolenti ceceni nelle sedi istituzionali europee ed italiane. Se la Cecenia divenne un laboratorio di morte e autoritarismo, l’Ucraina non deve essere soltanto libera, democratica ed europea, come vuole la stragrande maggioranza della popolazione. Può essere anche un punto di partenza per un nuovo processo di democratizzazione di Russia e Bielorussia da realizzare insieme all’attivista bielorusso Ales Bialiatski, all’organizzazione russa Memorial, e al Centro per le Libertà Civili ucraino, vincitori del premio Nobel della Pace di quest’anno.