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“Armageddon nucleare”. Realtà o tattica?

Si è celebrato il 22 ottobre il sessantesimo anniversario della crisi che ha interessato il territorio cubano nei primi anni ‘60, Washington e Mosca non arrivarono mai così vicini a un impiego di armi nucleari. Il 1962 rappresentò senza dubbio l’apice della contrapposizione ideologica, politica e militare tra le due principali potenze. E oggi?

Parliamo oggi di conflitto nucleare semplicemente perché abbiamo fallito.

Con fallimento, si intende il clamoroso insuccesso del genere umano nella gestione delle proprie collettività.
Facendo riferimento all’attuale conflitto alle porte dell’Europa, è inutile ripetere e specificare quanto gli interessi dietro tali minacce siano sempre volti a soddisfare l’ego personale, politico, militare o scientifico dei diversi attori in gioco.

Guardando alla storia, si celebra proprio in questi giorni il sessantesimo anniversario della crisi che ha interessato il territorio cubano nei primi anni ‘60 (era il 22 ottobre del 1962), Washington e Mosca non arrivarono mai così vicini ad un impiego di armi nucleari.

In seguito alla decisione sovietica di installare una schiera di missili nucleari a soli 50 chilometri dalle coste americane, l’allora presidente Kennedy circondò Cuba con la Marina Militare a stelle e strisce.

La presenza di un sottomarino sovietico nei fondali, e la predisposizione americana a difendersi, portarono tutti sull’orlo di una crisi di nervi potenzialmente letale.

Quel che avvenne nei fondali fu, come si suol dire, un semplice colpo di fortuna: il disastro fu evitato grazie all’intuizione di un singolo militare russo che, venendo meno ad un ordine imposto da un superiore, spense gli animi esagitati che lo circondavano mentre sulla terra ferma il lavoro diplomatico di Papa Giovanni XXIII e la razionalità dei fratelli Kennedy fece il resto.

Il 1962 rappresentò quindi, senza dubbio, l’apice della contrapposizione ideologica, politica e militare tra le due principali potenze ed oggigiorno – auspicabilmente – avremmo bisogno della stessa provvidenziale disobbedienza per scansare la medesima sciagura.

Oggi Joe Biden che parla di “apocalisse nucleare” dimostra quanto il rischio che Putin usi armi atomiche in Ucraina sia reale.

E di fronte a questa minaccia siamo tutti chiamati a evitare che accada.

Come già sappiamo, ciò che sta succedendo, normale in questi scenari, è un affare proficuo per una vera e propria catena di fornitura lecita ed illecita: gli speculatori finanziari, quelli energetici, alimentari, i trafficanti di droga e armi, oligarchie mafiose, e poiché questo conflitto vede protagonista la cybersecurity, anche le aziende attive in questo campo, che nelle ultime settimane hanno visto lievitare i loro introiti a causa di un necessario aumento di spesa legata ai servizi relativi alla sicurezza informatica, sono entrate di fatto in questa filiera.

Certo, abbiamo gli hacker di Anonymous (fino ad oggi perseguiti ed oggi divenuti eroi), ma i servizi di sicurezza dei Paesi occidentali con le loro risorse, possono scatenare una contro-guerra con tutta la potenza delle intelligenze digitali presenti nelle diverse Nazioni.

Lo sappiamo, è una guerra silenziosa, a bassa intensità apparentemente, che Putin, e da anni, con i suoi, sta portando avanti contro le democrazie, influenzando tutto l’influenzabile.

Non bisogna essere ipocriti però, o incedere, da parte di qualche anima pia, al pacifismo à la carte.

Lo scandalizzarsi dell’invio delle armi da parte dei Paesi occidentali è ipocrisia. Siamo seri, le armi sono funeste per definizione e sono fatte per uccidere anche quando solo usate in caso di difesa. Da sempre, sin dal medioevo, anche una semplice cerbottana è un’arma letale se con la punta impregnata nel veleno. Un’arma non nociva semplicemente non è un’arma.

Analizzando l’evoluzione di quella che doveva essere nei programmi della Federazione Russa, una guerra lampo sul territorio ucraino, ci troviamo di fronte ad una situazione pericolosissima: la Russia, preso il controllo della parte meridionale dell’Ucraina, del Donbass e di altri territori, costati un’infinità di perdite militari e civili, ha patito la carenza di risorse disposte ad appoggiare questa follia.

Pertanto, come nella più classica delle propagande, è stato necessario promuovere il teatrino dei referendum e della sfarzosa cerimonia di annessione dei territori ucraini.

Se a questo si aggiunge poi la sottovalutata resistenza ucraina, sovvenzionata da tutto l’occidente con armi e sanzioni, era prevedibile una più esplicita minaccia all’uso del nucleare.

Non è bastato dunque tagliare i rifornimenti di gas e portarne i prezzi alle stelle, né la parallela guerra cibernetica ha mutato la sostanza delle cose, una sola parola ha indotto a potenziare gli arsenali nucleari ed incrementare le esercitazioni militari di entrambe le parti e si è subito tornati a sessant’anni fa.

Nulla è cambiato di fatto, la guerra si porta sempre dietro la sua anima nera: quella di conflitto armato, e questo riguarda tutti i teatri di guerra aperti nel mondo.

La storia si ripete, pertanto arriverà la famigerata quiete dopo la tempesta, ma è fondamentale comprendere che nel frattempo è reale un solo pensiero, forse banale, ma il più importante: siamo esposti ad un peculiare rischio, quello di non saper gestire la pericolosa escalation di paura scatenata da tali intimidazioni e che coinvolge tutta la popolazione, portando a focalizzarsi esclusivamente su ciò che si teme, entrando così in un circolo vizioso che vede la diffidenza nel prossimo, regina di tutte le catastrofi.

Sciagura che vediamo concretizzarsi nell’uccisione di bambini, civili e militari (talvolta ignari della reale portata degli eventi di cui si rendono artefici).

Da un lato il popolo ucraino, invaso, offeso, usurpato. Dall’altro il popolo russo che pagherà per decenni a venire la scelta prepotente, fanatica, egoista di una sola persona attraverso sanzioni e tasse per rimediare le spese immense di una guerra, e il pregiudizio che condizionerà le future generazioni, inconsapevolmente destinatarie dei pregiudizi altrui.

Secondo Papa Francesco “in questo scenario oscuro, dove purtroppo i disegni dei potenti della terra non danno affidamento alle giuste aspirazioni dei popoli, non muta, per nostra salvezza, il disegno di Dio, che è un progetto di pace e non di sventura”. Ma la Chiesa vuole preservare la possibilità di parlare a tutti i contendenti e di favorire così il ripristino del dialogo.

Dunque, la condizione del dialogo è la reticenza e il torto fatto alle vittime? E la prerogativa della Chiesa è l’ipocrisia? La Chiesa, si dirà, è “contro tutte le guerre”. Ma non sempre è stato così, e la Chiesa non si è adattata nemmeno oggi a chiamare guerra qualunque ricorso alla legittima difesa. Quanto alla non violenza, è una scelta magnanima e intrepida, riguarda la coscienza e il corpo individuale, risponde, quando ne ha la forza, all’esortazione a offrire l’altra guancia, ma le guance sono solo due…

Si è chiuso da pochi giorni a Roma un importante incontro promosso dalla Comunità di Sant’Egidio col titolo “Il grido della pace”. I protagonisti veri sono stati il nostro Capo dello Stato, Sergio Mattarella e il Presidente francese Emmanuel Macron, che hanno ribadito, ancora, che “La pace è solo quella che gli ucraini decideranno”.

Ecco, è facile alimentare un pacifismo viscoso dai salotti televisivi e non, ritornare ad un antiamericanismo strisciante obliando la vera storia di questi ultimi 80 anni (o non voler vedere da chi e cosa è partito il nostro essere comunque asserviti ad altri), è impossibile: non si può considerare buoni gli americani quando vi era da ricostruire un Paese totalmente distrutto, in tutti i sensi, e imperialisti quando non conviene.

Vi è anche chi ha avuto massima responsabilità di governo per anni, e in quella funzione ha aumentato anche gli investimenti per la spesa militare e oggi conta di rifarsi una verginità per avere quel minimo di visibilità in più, affermando a pie sospinto, “bisogna trattare e trovare la pace”, ma davvero? E con chi? Con chi non intende assolutamente sedersi ad un tavolo negoziale, tranne quando “l’altro” sia definitivamente distrutto?

Una cosa è giudicare e opporsi sempre e comunque, altra è governare, gestire il potere, prendere decisioni, assumersi delle responsabilità. Il passaggio dallo scrivere semplici post e ricercate facili like a fare sul serio significa serietà, maturità, capacità umane e gestionali non da poco.

Tutti vorremo la pace, è banale anche ribadirlo, ma come affermava a qualche interlocutore provocatorio, Giulio Andreotti, che aveva, diciamo, qualche esperienza di governo: “Ecco, vede? La situazione è un po’ più complessa”.

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