Il Paese, uscito profondamente lacerato dalle urne, ha bisogno di trovare una strada verso la riconciliazione interna. Questa è sicuramente la sfida più complicata che attende il nuovo presidente, il quale dovrà necessariamente liberarsi delle spinte più radicali presenti nella sua coalizione per assumere una posizione più centrista
Al palazzo di Planalto, parecchie ore dopo la diffusione dei risultati ufficiali, regnava un silenzio davvero assordante. Il presidente uscente del Brasile, Jair Bolsonaro, dopo aver ricevuto la comunicazione della sua sconfitta, non aveva ancora rilasciato alcuna dichiarazione, non aveva incontrato nessun membro del suo esecutivo, né tantomeno aveva riconosciuto la vittoria del suo antagonista e acerrimo nemico, Luíz Inacio Lula Da Silva. Colui che negli anni scorsi era stato ribattezzato “Trumpinho” (piccolo Trump) proprio come l’ex inquilino della Casa Bianca rifiuta di accettare l’esito del ballottaggio svoltosi domenica scorsa. E mentre le cancellerie di tutto il mondo si affrettano a ricoprire Lula di congratulazioni e di promesse di cooperazione, nel Paese, già profondamente diviso, ci si interroga su quali potranno essere le prossime mosse di Bolsonaro.
La questione è tutt’altro che secondaria: già dall’inizio di novembre, Lula dovrà nominare la sua squadra che curerà la transizione. Ovviamente, perché un passaggio di consegne avvenga in modo ordinato e pacifico è necessaria la collaborazione di entrambe le parti, altrimenti si rischia di innescare un cortocircuito politico come quello che, dopo le ultime elezioni statunitensi, ha portato al tragico, e per alcuni versi imbarazzante, assalto a Capitol Hill. E in questo momento il Brasile ha bisogno di tutto meno che di nuove tensioni. Il Paese, uscito profondamente lacerato dalle urne (Lula ha vinto con il 50,9 per cento dei voti, contro il 49,1 del suo sfidante) ha bisogno di trovare una strada verso la riconciliazione interna.
Questa è sicuramente la sfida più complicata che attende il nuovo presidente, il quale dovrà necessariamente liberarsi delle spinte più radicali presenti nella sua coalizione per assumere una posizione più centrista, in modo da guadagnare il favore dei settori produttivi, della finanza e anche di quella parte di elettorato che ha votato contro di lui, ma appare disposta a dargli credito. “Non esistono due Brasili”, ha detto Lula nel suo discorso di vittoria, ma queste parole, più che descrivere la realtà, sembrano esprimere un auspicio. Il Brasile è fortemente diviso. Se ne è avuta prova durante l’ultimo dibattito televisivo trasmesso dalla Globo, dove i due contendenti, invece di parlare di programmi, si sono ricoperti di improperi. Se ne è avuta prova nelle settimane precedenti al ballottaggio percorse da una campagna di odio reciproco condita da bugie e fake news.
Eppure, come accennato, il Paese avrebbe bisogno di ben altro se è vero che, come hanno reso noto i vescovi cattolici, il 15 per cento della popolazione brasiliana soffre la fame e in alcuni stati come l’Alagoas questa percentuale balza addirittura al 36,7. Non si tratta di disagio o di povertà come sono conosciute in Europa: si tratta di vera fame, di miseria nera diffusasi ulteriormente durante e dopo la pandemia. Proprio questo esercito di affamati è stato il grande escluso di una campagna elettorale più improntata alla distruzione dell’avversario che all’inclusione. Certo, i milioni di poveri che popolano il Brasile guardano con grande speranza a Lula, artefice nei suoi primi due mandati di politiche di promozione sociale volte proprio all’eradicazione della fame, alla scolarizzazione e a favorire l’acquisto della casa.
Ma le condizioni sono oggi ben diverse da quelle della prima decade del 2000. In un’economia globale indebolita dall’inflazione e minacciata dalla recessione, il Paese trova forti difficoltà a esportare le materie prime di cui è ricco e sembra difficile che Lula possa presto alzare le tasse per finanziare le sue politiche sociali. Anche perché il nuovo presidente, una volta assunto l’incarico, avrà a che fare con un congresso in cui il governo è sostenuto solo da una minoranza, come spesso avviene negli Stati Uniti dopo le elezioni di midterm. Un Lula “pato manco” (anatra zoppa) sin dall’inizio del suo mandato avrà certo grandi difficoltà a far passare le sue iniziative e proprio per questo il nuovo presidente dovrà volgere il suo sguardo verso il centro dello schieramento politico. L’obiettivo, come auspica oggi un editoriale della Folha de Saõ Paulo, è uno sviluppo sostenibile e inclusivo. Una meta ambiziosa che i brasiliani sognano da molti decenni. Una meta da raggiungere superando le divisioni.