Il pianeta è uno solo, per questo non è possibile fermare il processo di transizione ecologica necessario alla sua sopravvivenza. Ma allo stesso modo sarebbe miope cercare di farlo senza considerare i Paesi produttori di combustibili fossili, che su questi basano le loro economie. L’analisi di Leonardo Bellodi
Non esiste un’opzione B. Abbiamo un solo pianeta sul quale 8 miliardi di persone vivono e dunque il tema della riduzione delle emissioni e della transizione energetica è la priorità che ogni giorno deve occuparci e preoccuparci.
L’Europa è il front runner nella difficile, e forse persa, sfida al cambiamento climatico. Altre regioni del mondo, come si è notato nelle assenze alla COP27 che si è recentemente conclusa in Egitto, lo sono meno. Ragioni di politica interna, di visioni di breve termine ed elettorali impediscono a certi Stati di adottare le misure necessarie per fronteggiare il problema.
A ben guardare, il tema della transizione energetica è cavalcato, giustamente, da Paesi consumatori di energie fossili (petrolio e gas). Ma vi è un’altra variabile dell’equazione che va tenuta in considerazione: quella dei Paesi produttori.
Ammettiamo che si compia la transizione energetica e che il mondo possa fare a meno del petrolio e del gas. Gli osservatori più realisti sanno che è un’ipotesi dell’irrealtà almeno nel medio periodo, ma è indubbio che è una situazione a tendere. Prendiamola dunque in considerazione. Non andiamo troppo lontano e guardiamo ai nostri vicini di casa nel Mediterraneo. Algeria, Libia, Egitto sono Paesi le cui entrate sono costituite quasi esclusivamente dal ricavato della vendita di petrolio e gas. Andando un po’ più a sud altri Stati si trovano nella stessa situazione: Nigeria, Mozambico e Angola. Se puntiamo a est abbiamo i Paesi del Golfo: Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Bahrein.
Questi Paesi non solo fondano la propria economia sugli introiti dalle vendite di idrocarburi ma riescono a contenere il fermento sociale grazie a impieghi pubblici e sussidi.
Per questo, Algeria, Libia ed Egitto hanno un fiscal breakeven oil price (FBOP), cioè il prezzo del gas e del petrolio necessario per garantire la parità del bilancio statale, tra i più alti tra i Paesi produttori.
Senza più introiti, questi Stati non saranno più in grado di assicurare i sussidi che fino ad oggi hanno garantito una relativa pace sociale (la Libia è un discorso a parte) e rischiano di andare alla deriva trasformandosi in failed states con conseguenze inimmaginabili per gli equilibri internazionali. La crescita di commerci illeciti, dell’immigrazione, di fenomeni terroristici non è una ipotesi fantapolitica. A ben guardare il problema non è solo loro. È anche e soprattutto nostro.
La comunità internazionale nel suo insieme deve dunque adoperarsi per cercare di offrire delle alternative.
Una delle strade da percorrere è quella dell’idrogeno. Nel breve periodo il gas di questi Paesi potrebbe produrre idrogeno blu. Nel medio periodo il solare, energia rinnovabile ampiamente disponibile nei Paesi produttori del Medio Oriente e Nord Africa, può essere utilizzato per produrre idrogeno verde. Si è calcolato che meno dell’ 1% del deserto del Sahara potrebbe produrre energia solare sufficiente per garantire l’approvvigionamento energetico di tutta l’ Europa per un anno.
Inoltre, alcuni studi tecnici mostrano che molti dei gasdotti oggi esistenti potrebbero essere utilizzati, con alcuni accorgimenti, per trasportare idrogeno blu o verde.
Certo non mancano le difficoltà tecniche, i costi sono ancora alti e gli investimenti ingenti. Ma una cosa è chiara. La comunità internazionale, e in primis l’Unione europea, non può permettersi il lusso di portare avanti politiche contro il cambiamento climatico senza considerare le necessità dei Paesi produttori. La coperta rischia di essere corta.