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Cambiamento climatico, gli States sono tornati (e si vede). L’analisi di D’Angelis

Biden alla Conferenza dell’Onu ha potuto presentare tutte le ambizioni per “un pianeta preservato, un mondo più equo e prospero per i nostri figli”. E ci sono stati grandi sospiri di sollievo, da Antònio Gutierres Segretario generale delle Nazioni Unite alle associazioni e persino tra le fila dei sempre più scettici scienziati climatologi e dei combattivi Friday for future. Ha tranquillizzato, insomma, anche i più pessimisti. Ecco perché nell’analisi di Erasmo D’Angelis

Scusate il ritardo, ma gli States sono tornati. Se Trump da spericolato negazionista dell’emergenza clima fece piazza pulita delle politiche industriali e climatiche green, mandando all’aria gli obiettivi di riduzione delle emissioni di anidride carbonica voluti e ratificati a Parigi da Barack Obama il 12 dicembre del 2015 innescando il pigro fallimento a catena di ogni successiva Conferenza delle parti dell’Onu, il vecchio Joe oggi rassicura un mondo che assiste alla sparizione in pochi anni di ghiacciai millenari, a sempre più prolungate ondate di calore con immensi roghi che devastano aree enormi, a siccità estreme, a fughe di disperati colpiti da inondazioni e carestie e al corredo di bancarotte finanziarie annunciate per risarcire e riparare.

Sapremo solo a fine Cop27 di Sharm El-Sheikh fino a che punto la politica è consapevole della fragilità, dei rischi ma anche delle opportunità della lotta climatica ormai abbracciata persino dai “lupi” di Wall Street. Ma intanto, nel caldo pomeriggio di ieri, dalle retrovie dei negoziatori che stanno limando anche le virgole del possibile accordo alle prime file dei 35.000 delegati che riempivano la grande Sala Nefertiti senza più nemmeno posti in piedi, il primo leader globale a godersi applausi convinti è stato iI presidente Biden, annunciando che è l’ora di “ristabilire gli Stati Uniti come leader globale affidabile nella battaglia climatica… E di prendere il futuro nelle nostre mani”.

In discreta forma, anche per aver schivato lo “tsunami Donald” che doveva abbattersi sui Democratici con lo sfondamento dei Repubblicani alle elezioni di Midterm e con le campane di tutti gli analisti che già suonavano a morto, e per aver incassato pur con un solo voto di maggioranza il via libera del Congresso al suo clamoroso piano su inflazione e clima, l’ex Build Back Better ribattezzato Democrat’s Inflation Reduction Act.  Con più di 700 miliardi di risorse complessive e sul piatto del contrasto alla crisi climatica un bel pacchetto da 368 miliardi di dollari che nel prossimo decennio dovranno tradursi in riduzione di emissioni killer dell’atmosfera puntando forte sulle rinnovabili e in aumento di occupazione, ha annunciato il cambio marcia con il raddoppio a 150 milioni di dollari dei finanziamenti per l’adattamento climatico per l’Africa per obiettivi climatici al 2030, e la partership con l’Ue per 500 milioni di dollari per la transizione green nell’Egitto di Al-Sisi, frutto di un buon bilaterale con il presidente egiziano, e l’abbandono progressivo delle fonti fossili come carbone e metano.

Con in tasca il più grande investimento sul clima della storia americana, Biden ha potuto presentare tutte le ambizioni per “un pianeta preservato, un mondo più equo e prospero per i nostri figli… Sono fiducioso che possiamo farcela”. E sono stati grandi sospiri di sollievo, da Antònio Gutierres Segretario generale delle Nazioni Unite alle associazioni e persino tra le fila dei sempre più scettici scienziati climatologi e dei combattivi Friday for future. Ha tranquillizzato, insomma, anche i più pessimisti spiegando che “la crisi climatica riguarda la sicurezza umana, la sicurezza economica, la sicurezza ambientale, la sicurezza nazionale e la vita stessa del pianeta”, e che anche la “brutale invasione della Russia in Ucraina dimostra tutta la fragilità delle dipendenze a cui siamo soggetti”, e che “una buona politica climatica è una buona politica economica”. Ha invitato i maggiori Paesi emettitori, nessuno escluso, ad “allineare le ambizioni” all’obiettivo globale di limitare il riscaldamento globale da 1,2 gradi attuali a 1,5 gradi, prima che la linea del fuoco degli oltre 2 gradi aumenti vittime e costi delle catastrofi meteoclimatiche.

Già, perché i “grandi” della Terra, gli Usa con Cina, Ue, India, Russia e Giappone, rappresentano oggi le economie più inquinatrici del globo, con il 49,2% della popolazione mondiale consumano il 66,4% di combustibili fossili e producono il 67,8% delle emissioni globali di CO2 fossile.

Ha deluso invece i Paesi più esposti e vulnerabili e a basso reddito, i meno responsabili ma i più colpiti dal riscaldamento globale, impegnandosi per l’esatto contrario di quanto chiedono da anni, ovvero uno strumento finanziario per il “loss and damage” in grado di misurare e poi risarcire e sostenere le loro ingenti perdite e gli epocali danni creati dalla crisi del clima innescata dai Paesi inquinatori.

L’unico impegno preso è l’appoggio alla proposta del G7 della Global Shield, il sistema di assicurazioni di rischio climatico basato su prestiti ma non su risorse cash dei grandi emettitori a sostegno dei Paesi più vulnerabili per “riparazioni e risarcimenti” dei danni subiti oggi e in passato, e quelli futuri. E qui, non a caso, è stato interrotto dai bu dei ragazzi delle comunità indigene con il loro striscione contro i combustibili fossili. A loro ha promesso solennemente di indirizzare le negoziazioni in corso e di concretizzare impegni e soluzioni alla crisi climatica e sul rallentamento della deforestazione.

Se l’impegno negoziale degli Usa sarà “decisivo” lo sapremo solo il 18 novembre, alla fine delle defatiganti trattative in corso, condotte per la Casa Bianca da John Kerry inviato speciale per il clima. Nel frattempo, misurazioni e proiezioni alla mano, gli scienziati dimostrano che oggi la Terra è di 1,2 gradi Celsius più bollente di prima dell’era industriale, e che siamo nella fase più calda dei diecimila anni alle nostre spalle, con accelerazioni brusche da 0,18 gradi centigradi per decennio, il che raddoppia la velocità di 0,36 gradi per ogni decennio.

Gli analisti del Global Carbon Project proprio ieri hanno confermato che il CO2 cresce a un ritmo insostenibile con un più 1% rispetto al 2021, e con un quadro globale che vede riduzioni di gas serra in Europa dello 0,8% e per la prima volta anche in Cina con un meno 1%, ma gli Usa registrano un aumento dell’1,5% e c’è il picco dell’India a più 6%, cosicché nel 2022 la crescita media delle emissioni climalteranti sarà dell’1%, un trend che tra soli 9 anni – se non torneremo a livelli più bassi di emissioni registrati nel periodo dei lockdown anti-Covid – vedrà superata la fatidica soglia di più 1,5 gradi.

Insomma, continuando a star fermi e senza azioni di mitigazione e adattamento adeguate, addio ai limiti previsti dall’accordo di Parigi che traguardavano la neutralità climatica entro il 2050. Senza forti riduzioni di emissioni, almeno il 55% entro il 2030 rispetto ai livelli del 1990, sarà superata la soglia di sicurezza superiore fissata sotto i 2 gradi rispetto al periodo preindustriale. La speranza è che la decisa spinta degli Usa possa rimettere il mondo sui binari giusti e fuori dall'”Autostrada verso l’inferno”, la suggestione realistica di Gutierrez, e farlo ripartire da dove eravamo rimasti e cioè dall’accordo siglato a Parigi, recuperando il troppo tempo perduto e orientando i flussi finanziari. Al G20 di Bali, dove Biden è volato dall’Egitto, sarà anche questo uno dei temi nel bilaterale con il leader cinese Xi-Jinping.

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