Il complicatissimo contesto delle Conferenze delle parti dell’Onu che ormai evidenzia più di un problema ed è un groviglio di conflitti di interessi, si dà l’arrivederci alla Cop28 del prossimo anno. Organizza Dubai, Emirati Arabi Uniti, altra potenza petrolifera. Andrà in onda lo stesso film?
Se “i sogni muoiono all’alba”, all’alba africana di Sharm el Sheikh, l’assemblea plenaria della ventisettesima Conferenza delle parti dell’Onu sui cambiamenti climatici dopo aver velocemente sostituito, alle quattro del mattino, il bivacco notturno in sala su poltrone o per terra, tra pochi e rassegnati applausi e zero sorrisi, ha dichiarato svanito il sogno di uno start alla battaglia climatica globale per riuscire a frenare il conto alla rovescia dello scenario più estremo che proietta deep impact molto più gravi su popolazioni ed ecosistemi. Il documento finale, continuamente rimaneggiato dopo un extra che ha allungato di due giorni la chiusura, ha capitolato sull’obiettivo numero uno, e cioè le azioni per la mitigazione del riscaldamento globale entro un aumento di 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, chiudendo il summit con frasi generiche e prive degli impegni annunciati.
Hanno allineato le ambizioni non all’obiettivo globale di limitare il riscaldamento globale ma alla monetizzazione dei danni catastrofali in corso, prodotti da tempeste e inondazioni, siccità e carestie e dall’aumento del livello degli oceani e dei mari, costati 75 miliardi di dollari solo nei soli primi 6 mesi 2022, come calcola Swiss Re Institute, con un più 22% sulla media degli ultimi 10 anni, e con soli 35 miliardi di danni coperti da polizze assicurative. Il risultato raggiunto è l’annuncio del finanziamento del loss and damage, il fondo ancora tutto da costruire e da rendere operativo finalizzato a riparare e risarcire perdite e danni nei Paesi in via di sviluppo.
È stato un succeso al fotofinish del fronte dei Paesi a più basso reddito e i più colpiti dall’emergenza climatica ma meno responsabili e meno industrializzati. Sicuramente è un evento nell’indecisionismo climatico globale, ma è la sola scelta, peraltro dovuta, che riconosce quantomeno le conseguenze della crisi climatica e il diritto ad una compensazione. Se la brava ministra del clima del Pakistan, Sherry Rehman, a nome del gruppo dei vulnerabili G77+Cina ha spiegato che “non è carità, ma un investimento nel futuro e nella giustizia climatica”, il finale somiglia però tanto all’arrogante e tristissimo “S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche” di Maria Antonietta d’Asburgo-Lorena, frase dedicata al suo popolo affamato. I grandi della Terra sono disposti a risarcire ma non a prevenire e a provare a diminuire le catastrofi.
Il blocco dei Paesi industrializzati a tutta CO2, dai “petrolieri” d’Egitto e dell’Arabia Saudita ai grandi emettitori come Cina, India, Usa, Ue, Russia, Giappone con le economie più inquinatrici – con il 49,2% della popolazione mondiale consumano il 66,4% di combustibili fossili e producono il 67,8% delle emissioni globali di CO2 fossile -, messo ancora di fronte alle responsabilità di rispettare i tagli promessi del 45% entro il 2030 con target net zero entro il 2050, è rientrato nella trincea inespugnabile della difesa dei combustibili fossili come carbone, petrolio e gas.
Hanno fatto muro nell’ultima notte di negoziati anche alla proposta avanzata da 80 paesi di riduzione di tutte le fonti fossili con misure “graduali”, fissando il picco di emissioni al 2025. Queste, invece, resteranno ancora no limits e senza chiare validazione di obiettivi di mitigazione, e così da più 1,2 gradi attuali la temperatura globale vola verso i +1,7 °C. e oltre i 2 gradi stando alle fosche previsioni modellistiche dell’IPCC, con concentrazione di CO2 nell’atmosfera già a 415,95 parti per milione, temperatura media globale sopra le media degli ultimi secoli e del 20° secolo, lo scioglimento progressivo dei ghiacciai, e il calore di oceani e mari superiori ai valori medi precedenti con il nostro Mediterraneo che si riscalda più di tutti, con impatti negativi sugli ecosistemi marini e sull’habitat.
Eppure, sul rischio di saltare a fine secolo nella linea del fuoco degli oltre 2 gradi, aveva messo in guardia, nel suo discorso molto applaudito a Sharm, anche Joe Biden chiarendo che è possibile il raggiungimento del “punto di non ritorno” e bisogna scongiurarlo. Ma la situazione geopolitica internazionale è quella che è, e l’aggressione della Russia all’Ucraina ha decisamente piegato verso i carburanti fossili le politiche energetiche di tanti Paesi, Italia compresa, che da mesi fanno a gara per sostituire e supplire alla mancanza di gas russo riaprendo centrali a carbone, acquistando quote di gas o costruendo nuove infrastrutture per la sua estrazione e il suo sfruttamento dai giacimenti. La brusca interruzione dei percorsi di decarbonizzazione che avrebbero dovuto essere avviati con l’accordo di Parigi, è evidente, ed è la contraddizione che ha pesato nei negoziati e rischia di restare un asset di lungo termine.
Ai negoziatori globali, insomma, non è bastato il clamoroso flop di un anno fa a Glasgow chiuso con le sincere lacrime piene di scuse e di vergogna di Alok Sharma, l’ex Segretario di Stato della Gran Bretagna e Presidente della Cop26, per l’allora riuscito sabotaggio dei Paesi guidati soprattutto da India e Cina che avevano prodotto il documento “bla bla bla”, come l’aveva liquidato Greta Tumberg, o la “letterina di Natale” come la consideravano molti delegati, annullando l’atteso happy ending. Shamr è ripartita da quel fallimento.
E un anno dopo, la certezza è l’impossibilità, ad oggi, di una chiara rotta verso la titanica riduzione delle emissioni di carbonio globali del 45% entro il 2030, possibile solo con un radicale taglio alle centrali a carbone e ai sussidi per i combustibili fossili, con green economy e l’attuazione dei piani previsti per lo sfruttamento della gamma di energie rinnovabili anche nei paesi poveri. Le tecnologie di cattura della CO2 da carbone continuano ancora a rimanere quasi inesistenti, così come il taglio ai sussidi fossili e le verifiche degli impegni dei governi per l’accelerazione della road map per la riduzione o l’eliminazione graduale dell’uso dei combustibili fossili. Il trend di crescita delle emissioni invece è evidente, con un aumento nel 2021 e nel 2022 soprattutto per i consumi di carbone registrati in India e anche nella Ue (+7%), e nonostante la riduzione del 3% in Cina.
Molti i volti scuri ripartiti da Sharm. Come quello di Franz Timmermans, il vicepresidente della Commissione Ue che pure aveva provato a far agganciare l’accordo sui fondi per loss and damage alla mitigazione e all’obiettivo 1.5°C, e che spiega di aver accettato il documento finale “con riluttanza, perché sulle riduzioni delle emissioni qui abbiamo perso una occasione e molto tempo, rispetto alla Cop26 di Glasgow. Siamo a 1,2 gradi di riscaldamento e abbiamo sentito in questi giorni quali effetti questo stia già provocando”.
Ma non sono servite nemmeno le parole durissime del segretario generale dell’Onu Antonio Guterres che per l’ennesima volta chiedeva una svolta nella lotta ai cambiamenti climatici e ribadisce che “il nostro pianeta è ancora al pronto soccorso. Dobbiamo ridurre drasticamente le emissioni ora, e questo è un problema che Cop27 non ha affrontato. La linea rossa da non oltrepassare è quella del limite di temperatura di 1,5 gradi. Per avere qualche speranza di mantenere l’1,5, dobbiamo investire massicciamente nelle energie rinnovabili e porre fine alla nostra dipendenza dai combustibili fossili. La Cop27 si conclude con molti compiti e poco tempo”.
Il complicatissimo contesto delle Conferenze delle parti dell’Onu che ormai evidenzia più di un problema ed è un groviglio di conflitti di interessi, si dà l’arrivederci alla Cop28 del prossimo anno. Organizza Dubai, Emirati Arabi Uniti, altra potenza petrolifera. Andrà in onda lo stesso film?