Alla Cop27 entra il Loss & Damage, ossia i danni legati al cambiamento climatico e alle modalità di finanziamento degli interventi. Uno dei punti nodali del negoziato climatico, con una formula di compromesso che evita il richiamo ad un principio di “responsabilità” legale delle economie avanzate. Arvea Marieni da Sharm El-Sheik racconta i dossier globali che si intrecciano al climate change: globalizzazione, pandemie, conflitti
Accompagnata da accese polemiche in patria e all’estero, la visita del cancelliere tedesco Scholz a Pechino ha prodotto risultati apparentemente modesti ma reali. Un tassello, e un primo positivo segnale, dell’intenso lavorio diplomatico che dietro le quinte punta a riaprire un necessario dialogo tra le potenze. È questo, infatti, un periodo fitto di appuntamenti importanti, con il Summit del G20 a Bali (15-16 novembre), dove potrebbe aver luogo un incontro tra Biden e Xi, la Cop27 (6-18) sul clima appena cominciata in Egitto, che vede la Germania, alla presidenza del G7, giocare un ruolo di rilievo, fino alla meno nota Cop15 sulla biodiversità che si terrà a dicembre in Canada.
I negoziati climatici sono complicati dall’acuirsi delle tensioni geopolitiche e dall’esplodere di crisi multi-sistemiche dagli effetti senza precedenti. La risoluzione della crisi ambientale globale non può avvenire in un contesto di conflittualità esasperata, ma richiede ampi livelli di convergenza e collaborazione sostanziale tra le parti, hanno ricordato stamane tutti i rappresentanti chiamati a parlare durante la cerimonia di apertura della Cop27. E proprio Berlino è riuscita ad inserire per la prima volta nell’agenda del G7 un tema chiave per i paesi meno sviluppati, quello del Loss & Damage, ossia dei danni legati al cambiamento climatico e alle modalità di finanziamento degli interventi. Uno dei punti nodali del negoziato climatico.
E infatti anche i lavori preparatori della Cop, mai interrotti dalla precedente tornata di Glasgow, sono culminati nello sforzo di finalizzare la difficile agenda dei negoziati, con la richiesta, tra le molte, presentata dal Gruppo dei 77 e Cina di inserire proprio il Loss & Damage tra i temi di discussione. Obiettivo raggiunto nella notte con una formula di compromesso che evita il richiamo ad un principio di “responsabilità” legale delle economie avanzate.
Al di là dei formalismi del processo multilaterale, oltre i cancelli della cittadella fortificata di Sharm, la decarbonizzazione dell’economia mondiale, ormai saldamente avviata, si scontra con le priorità di sicurezza energetica accentuate dall’aggressione russa a Kiev, e dal conflagrare delle crisi ambientali e politiche che stanno accelerando il processo di disregolamentazione planetaria.
In questo quadro Scholz, che ha sempre rivendicato l’importanza del dialogo, porta a casa il monito del presidente cinese alla Russia, mai nominata, ma invitata a non minacciare l’uso di armi nucleari “per prevenire una guerra nucleare in Eurasia”. Un chiaro riferimento all’Ucraina per cui Xi auspica negoziati urgenti senza ripetere, dato significativo, le usuali critiche a Usa e Nato.
Scholz ha invece condannato le violazioni cinesi dei diritti umani e invitato la Cina a usare la sua influenza su Mosca per porre fine alla guerra. Ma in quello che sembra un avvertimento a Washington, ha anche sottolineato che “la Germania non ha interesse a vedere emergere nuovi blocchi nel mondo”.
All’interno del suo stesso governo la verde titolare degli esteri Annalena Baerbock esprime, come molti in Europa, maggiore diffidenza nei confronti di Pechino, e ha recentemente ricordato come sia necessario evitare nuovi vincoli di dipendenza da attori ostili.
E proprio nel difficile equilibrio tra autonomia e integrazione si gioca il futuro della lotta per il clima globale.
Se la tutela dell’autonomia strategica, su diversi livelli, è opportuna e necessaria (si pensi alla rilocalizzazione di catene di valore e di produzione strategiche o ai così detti “minerali di transizione” e alle terre rare), questi obiettivi non sono in contraddizione con un più ampio schema di collaborazione sulle regole globali della decarbonizzazione. Al contrario, come dimostra l’analoga volontà cinese di concentrarsi sul mercato nazionale, ne sono un elemento portante. L’integrazione dei costi del carbonio nel prezzo delle merci anche attraverso dazi ambientali come il CBAM europeo renderà più conveniente rilocalizzare alcune produzioni. Gli scambi saranno concentrati in ambiti altamente specifici che rispecchiano il vantaggio competitivo in know-how o la capacità di innovazione delle varie aree economiche.
L’investimento miliardario della tedesca BASF in Cina è quindi destinato a servire soprattutto l’ampio mercato regionale, come l’arrivo delle case del nuovo automotive cinese in Europa portano ad una salutare spinta ai giganti europei arroccati sulla difesa del motore a combustione interna.
L’accento posto dal governo cinese sullo sviluppo qualitativo ad alto valore aggiunto e sulla così detta “dual circulation” può essere letto pertanto anch’esso come un tassello del passaggio verso un’economia ecologica a bassa intensità di carbonio e risorse, piuttosto che come segnale di protezionismo economico.
In modo paradossale, proprio le crisi in atto dimostrano quanto siamo diventati interdipendenti di fronte a minacce globali. Le soluzioni risiedono nella cooperazione e nel coordinamento a livello globale, nell’istituzione di protocolli e standard comuni, siano essi di commercio, ambientale o sanitari (la crisi del covid docet), nello scambio di conoscenze e negli sforzi e investimenti congiunti su materiali, laboratori e attività di ricerca. Nel mondo di oggi aiutare gli altri, siano questi i paesi del Sahel nel Mediterraneo allargato o la Cina, significa semplicemente aiutare se stessi.
Dal secondo dopoguerra, la globalizzazione è stata la forza trainante dello sviluppo mondiale. Rendendo le economie mondiali più interconnesse e interdipendenti che mai, la globalizzazione ha aumentato i livelli di consumo in occidente, ha fatto uscire dalla povertà centinaia di milioni di persone nei paesi poveri, ha contribuito a mantenere la pace tra gli stati e creato le premesse per un sistema di governance delle relazioni internazionali basato su regole condivise. Sincronizzando e integrando i cicli di produzione e consumo di massa, la globalizzazione ha reso possibile un accesso senza precedenti a beni e servizi a prezzi bassi.
Il rovescio della medaglia è che la costante pressione sui prezzi si è tradotta in una riduzione dei salari, in un abbassamento degli standard ambientali, sanitari e di sicurezza in alcune parti del mondo e in danni devastanti all’ambiente. Questa corsa al ribasso ha portato a una crescente concorrenza tra luoghi di produzione e paesi che si è riflessa sul livello reddituale dei lavoratori. Le classi medie occidentali hanno inizialmente accettato questo scambio tra livelli salariali e minore tutela dei diritti, a fronte dall’accesso a maggiori livelli di consumo.
Ma l’equazione si è dimostrata errata producendo un doloroso impatto sul tenore di vita. Lo scontento sociale ha aperto oggi una pericolosa fase di instabilità nei sistemi di democrazia elettorale occidentali. La causa principale di queste distorsioni risiede però non nella globalizzazione tout court, quanto piuttosto nella specifica forma di integrazione dei sistemi di commercio internazionali, fondati sulla fede nel laissez-faire economico, e il sospetto verso le regole, alla base del fondamentalismo del libero mercato.
Come ci ricordano gli storici la globalizzazione non è inevitabile. Fasi di deglobalizzazione, infatti, si sono già verificate in passato, in particolare tra il 1914 e il 1945. Va notato che questo periodo di trent’anni coincide con la più tremenda tragedia che l’umanità abbia mai affrontato e con gli eccidi di due guerre mondiali.
La storia, recita una citazione famosa, non si ripete. Ma fa rima. E il primo ventennio del XXI secolo sembra riproporre gli echi della politica di potenza e dello scontro tra sistemi sociali confrontati con la crisi dell’accesso a risorse sempre più scarse. Oggi, alla pressione indotta dai cambiamenti climatici sugli ecosistemi e sulle risorse naturali – acqua in primis– si aggiunge per gli stati la faticosa ricerca di nuovi equilibri a fronte del riassetto dell’economia globale indotto dal passaggio dall’era fossile a quella delle nuove energie.
La minaccia, per molti, è l’erosione dei sistemi di potere consolidati e la svalutazione degli asset detenuti dagli attori economici che hanno dominato l’avanzata delle economie industriali, resa possibile da carbone, petrolio e meccanizzazione. Non a caso, proprio gli stranded assets – e la compensazione delle perdite – e gli impatti attesi sul debito degli stati, sono uno dei temi sul tavolo dei leader politici globali chiamati a sciogliere, come ha ricordato il presidente uscente della Cop Alok Sharma nella cerimonia di apertura di Sharm, “priorità concomitanti” e spesso in apparente contraddizione.
Anche la stessa globalizzazione in fondo è resa possibile dalla forza del motore a combustione che ha permesso, con il trasporto oceanico, la costruzione di catene di fornitura globali.
Se dal punto di vista sociale la globalizzazione non ha affrontato la questione dell’adeguato compenso della forza lavoro, sul lato ambientale, l’economia fossile ha ignorato o negato il problema delle esternalità ambientali prodotte dallo sfruttamento di asset naturali non adeguatamente valutati, dei costi di bonifica e degli ulteriori impatti indiretti, ad esempio sulla salute. In breve, il pensiero economico lineare che ha dominato l’economia mondiale a partire dalla terza rivoluzione industriale, ha ignorato i vincoli naturali ed evitato di prendere in considerazione – e tanto meno di affrontare – la realtà della scarsità delle risorse e del degrado climatico e ambientale.
Oggi la natura – come l’economia – ci presenta il conto.
Come dimostrano gli effetti sempre meno gestibili del cambiamento climatico e delle crisi ecologiche, è la stessa espressione della stessa sovranità nazionale ad essere vincolata dalla necessità di un accesso condiviso a risorse planetarie limitate, dai confini ecologici e planetari e dall’effettivo equilibrio di potere tra attori statali e non statali all’interno della comunità internazionale.
Sono in corso cambiamenti potenzialmente irreversibili del clima e degli ecosistemi del pianeta che nessuno stato può fermare. Siamo vicini, se non abbiamo già superato, a punti di svolta che rappresentano “una minaccia esistenziale per la civiltà”. Ad esempio, lo scioglimento dei ghiacciai e lo scongelamento del permafrost potrebbero liberare antichi virus rimasti intrappolati per centinaia di migliaia di anni. La crisi del coronavirus potrebbe essere nulla al confronto. E i rischi climatici e ambientali non si fermano alle frontiere degli stati con effetti a catena e ripercussioni sui sistemi economici globali.
Ora più che mai è necessaria la cooperazione internazionale. Solo un’azione coordinata da parte di tutti gli attori della comunità internazionale può garantire la condivisione e l’attuazione degli interventi necessari per far fronte a minacce esistenziali nuove e in gran parte imprevedibili. Se vogliamo avere successo, i massimi rappresentanti dei governi, delle istituzioni finanziarie internazionali, delle grandi multinazionali dell’energia e di altri settori industriali strategici devono assumersi congiuntamente la responsabilità di un’agenda globale per l’economia e la geopolitica del cambiamento climatico, dell’ambiente e della salute pubblica globale. E questo significa abbassare il livello della tensione.
La proposta tedesca di uno “scudo di protezione” contro i cambiamenti climatici per i paesi più vulnerabili che permetta l’erogazione rapida ed efficace di risorse finanziarie nel caso di danni causati da catastrofi climatiche è un esempio di come potrebbe configurarsi in concreto questa forma di collaborazione. Una logica umanitaria, ma anche utilitaristica. Consentendo alle popolazioni di restare nelle aree di origine eviteremo, ad esempio, milioni di migranti climatici.
Se è difficile anticipare quanti e quali saranno i risultati di questa COP, di certo i segnali di avvio sono misti e dipenderanno dall’evoluzione del quadro internazionale. Per ora prendiamo nota che la richiesta della Ue di inserire in agenda la discussione allineare i flussi finanziari alle regole di Parigi non è stata accolta.
(Foto dal profilo Instagram della Cop27)