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Le speranze della Cop27 e il pianeta in codice rosso. Scrive D’Angelis

Fermarci in tempo è ancora possibile utilizzando anche il set di tecnologie ormai disponibili, ma solo con misure condivise da tutti e soprattutto dai Paesi industriali più inquinatori, e da adottare adesso, provando a restare sotto i 2 gradi. L’analisi di Erasmo D’Angelis nel giorno di apertura di Cop27, il summit mondiale sull’ambiente

Nel 2022, l’anno che si candida ad essere il più bollente di sempre, riuscirà l’Egitto antico bersaglio delle proverbiali dieci piaghe bibliche inviate in terrificante successione, a riavviare la macchina della transizione energetica globale e dell’adattamento climatico ferma ai box, per ridurre le emissioni killer in atmosfera e i devastanti impatti delle moderne piaghe prodotte dalla pandemia climatica?

Lo sapremo solo il prossimo 18 novembre, con un probabile finale al fotofinish della 27esima Conferenza delle parti dell’Onu sui cambiamenti climatici, la Cop27, che si è aperta a Sharm El-Sheikh, anche con migliaia di rappresentanti di Ong, 600 scienziati, manager di aziende di tecnologie e soluzioni per la transizione green e la decarbonizzazione, ecologisti e associazioni. Le premesse in realtà non sono un granché. Non c’è un bel clima, e assisteremo probabilmente all’ennesima Conferenza di transizione, con negoziati che impegneranno sherpa, diplomatici e leader di 196 Paesi nel tentativo di provare a limare fino all’ultima parola un accordo che lo scetticismo generale al momento non vede e non prevede.

Al contrario, le tensioni sono alle stelle sia nel Paese ospitante per i diritti umani calpestati, ma soprattutto per tutto quel che è accaduto nell’anno orribile alle nostre spalle che ha visto completamente rimossa la grande ed esplosiva questione climatica. Da un lato ci sono i “grandi” della Terra, i leader di Cina, Stati Uniti, Ue, India, Russia e Giappone, le economie più inquinatrici anche a carbone e che rappresentando il 49,2% della popolazione mondiale consumano il 66,4% di combustibili fossili con il 67,8% delle emissioni globali di CO2 fossile.

Dall’altro i capi di Stato e di governi dei Paesi più esposti e vulnerabili e a basso reddito, i meno responsabili ma i più colpiti dal riscaldamento globale come quelli africani e asiatici che fanno i conti delle migliaia di vittime, dei miliardi di danni e dei milioni di sfollati e profughi climatici in fuga da siccità estreme e alluvioni distruttive e dall’innalzamento del livello del mare che non lasciano scampo. Per loro, i Paesi ricchi si erano impegnati a investire 100 miliardi di dollari l’anno dal 2009 per aiutarli nell’adattamento. Obiettivo mancato, nonostante le intese ribadite ancora a Glasgow un anno fa, e solo 84 miliardi di dollari finora sono stati impegnati ma non erogati, e sono del tutto insufficienti ad evitare centinaia di milioni di nuovi profughi climatici.

L’attenzione politica e mediatica e delle opinioni pubbliche è, del resto, tutta concentrata sull’aggressione barbarica della Russia all’Ucraina, sui venti di recessione globale, sull’emergenza del caro energia con il ritorno alle fonti fossili come petrolio e gas per la sicurezza energetica ma non per quella climatica che avrebbe bisogno di una maggior spinta per le tecnologie per lo sviluppo delle energie rinnovabili e per le infrastrutture green di adattamento. L’economia cresce se va in quella direzione. L’Europa, responsabile dell’8% circa della produzione di anidride carbonica globale, entro il 2030 dovrà abbattere il 55% delle emissioni di gas serra rispetto al 1990 e zero emissioni nette entro il 2050. E questo sarà un obiettivo ribadito dai leader deu Paesi europei, come ha fatto anche Giorgia Meloni annunciando che a Sharm El-

Sheikh dirà che l’Italia partecipa all’impegno comune preso di riduzione delle emissioni. Tutti comunque dovranno scoprire le carte a un anno dalla fallimentare Cop26 di Glasgow che bruciò le promesse della vigilia, e ne sapremo di più dopo il vertice dei leader del 7 e 8 novembre con 125 partecipanti tra capi di Stato e di governo, e i diplomatici di 200 Paesi. Nel frattempo analisi e proiezioni dimostrano i grandi rischi in corso e annunciati. Con ondate di calore estremo che continueranno a salire al ritmo attuale, entro il 2100 diverse aree dell’Asia e dell’Africa diventeranno inabitabili per 600 milioni di persone, stima l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari Ocha, con l’avvertimento a cambiare rotta.

Cresce l’intensità, la frequenza e la durata degli eventi meteo-climatici con grandi inondazioni e alluvioni-lampo, sempre più lunghe siccità come i 4 mesi che noi italiani abbiamo alle spalle e incendi furiosi, devastanti uragani, tifoni e cicloni, aree costiere a partire dagli atolli da sogno che continuano ad affondare per l’innalzamento del livello del mare e lo scioglimenti dei ghiacciai, desertificazioni, carestie, micidiali catastrofi climatiche mai così frequenti e violente con vittime e danni gravissimi in tutti i continenti. Gli scienziati climatologi dell’Intergovernmental panel on climate change dell’Onu mettono in guardia dal “rischio imminente” di toccare 1,5 gradi” di temperatura perché siamo siamo già a quota 1,2 e le nuove stime sono pessime per i troppi impegni mancati. Il tipping point delle quantità di carbonio sparate in atmosfera sta per essere raggiunto e forse superato al punto da non riuscire più a tornare allo stato iniziale.

Fermarci in tempo è ancora possibile utilizzando anche il set di tecnologie ormai disponibili, ma solo con misure condivise da tutti e soprattutto dai paesi industriali più inquinatori, e da adottare adesso, provando a restare sotto i 2 gradi, che è poi la soglia sulla quale si attestarono i 195 “potenti” della Terra, spinti dagli Usa di Obama e dalla Cina, firmando il 12 dicembre 2015 l’accordo di Parigi, Ma gli impegni concreti annunciati allora sono in gran parte sulla carta. Il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, lancia e rilancia Sos: “Siamo al codice rosso e sono a rischio immediato miliardi di persone, bisogna agire subito”.


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