Pubblichiamo il discorso di Mario Caligiuri, Università della Calabria, direttore Osservatorio sulle politiche educative dell’Eurispes, in occasione del seminario “Scuola e Università per il futuro dell’Italia”, che si tiene il 14 novembre presso la Sala Conferenze della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. Un evento per raccogliere preziose indicazioni per la stesura, a distanza di vent’anni dal primo, del Secondo Rapporto sulla Scuola e sull’Università che l’Eurispes pubblicherà nel 2023
L’Osservatorio sulle politiche educative dell’Eurispes, voluto da Gian Maria Fara e a me affidato col supporto di un qualificato comitato scientifico, intende porre all’inizio della legislatura il tema dell’educazione al centro del dibattito istituzionale, politico e culturale del nostro Paese.
Per noi, il 2023 sarà un anno importante.
La prima ragione è che ricorreranno i 100 anni dalla Riforma Gentile, che ha formato quei laureati e diplomati che hanno contribuito, insieme alla collocazione occidentale e alla coraggiosa politica petrolifera di Enrico Mattei, a far diventare l’Italia una grande potenza industriale, mettendo in luce l’aspetto trascurato ma decisivo dei tempi dell’educazione.
Spiega Koeno Gravemeijer, della Eindhoven University of Technology: “Nell’educazione tutto accade cinquant’anni più tardi”.
La seconda ragione è che ricorreranno i vent’anni dal primo Rapporto Eurispes sulla scuola e l’università. E nel 2023 presenteremo il secondo Rapporto che intende essere uno strumento di riflessione, consapevolezza e azione sulla indispensabile centralità dell’educazione nel nostro Paese.
La causa delle cause
I nostri connazionali per tre quarti non comprendono una frase complessa in italiano e per oltre un quarto sono analfabeti funzionali, con ricadute evidenti sull’economia e sulla democrazia.
Pertanto, il primo problema nazionale è probabilmente rappresentato dalla debolezza dell’istruzione, confermato da tutte le ricerche internazionali, che evidenziano inoltre un abisso tra Nord e Sud del Paese.
Il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha ricordato che le società si evolvono soprattutto in base all’aumento della loro capacità di apprendimento, da non confondere con il semplice aumento dei titoli di studio.
Di conseguenza, i Parlamenti dovrebbero porre al centro delle proprie politiche l’educazione e non l’economia, poiché la seconda discende dalla prima.
I tempi della politica, però, si soffermano sull’immediatezza delle risposte economiche piuttosto che sul lungo periodo dei risultati educativi.
Nonostante questo, di fronte a ogni problema sociale, dall’ambiente alla criminalità, dalla disoccupazione all’immigrazione, dalla pandemia ai rischi dell’intelligenza artificiale, si invoca sempre l’educazione, perché tutte le altre ricette sono fallite. Si dimentica, però, che, in queste condizioni, scuole e università non rappresentano la soluzione ma sono parte rilevante del problema.
Il ritardo politico
Preceduti dalle scelte politiche successive al ‘68 e fortemente accentuate dalle riforme continue e destabilizzanti susseguitesi dalla fine degli anni Novanta, i recenti programmi elettorali dei partiti hanno tutti assegnato, chi più chi meno, una funzione importante all’educazione. Complessivamente, ci è sembrato di cogliere una dimensione inattuale.
Infatti, si propongono interventi di dettaglio, quasi una manutenzione del dolore, senza una visione di largo respiro.
Eppure l’educazione è l’area delle politiche pubbliche più estesa in assoluto, che investe, direttamente e indirettamente, la maggior parte della popolazione italiana.
Quella che, secondo noi, non è stata approfondita è la profonda mutazione antropologica contemporanea dove, come tutti noi, gli studenti non vivono più in una sola dimensione, quella fisica, ma in tre dimensioni: quella fisica, quella virtuale e quella ibridata tra uomo e macchina. E sullo sfondo già si intravedono il metaverso e la fisica quantistica.
Invece, tutta l’organizzazione sociale è basata sulla dimensione fisica e anche quando ci occupiamo di quella virtuale la regoliamo con le categorie giuridiche e mentali di quella fisica.
È stato rilevato che chi inizia adesso gli studi, quando li terminerà, per più del 60 per cento svolgerà un lavoro che ancora non è stato inventato. Nel frattempo, nelle scuole e nelle università si continuano a formare professioni destinate in gran parte alla disoccupazione.
Di fatto, le competenze che serviranno nei prossimi decenni non le conosce nessuno e i cittadini dovranno essere formati a come utilizzare proficuamente il tempo libero perché il tempo del lavoro sarà ridotto per tutti, così come se non si riformano presto i Ministeri dell’Istruzione e dell’Università sarà sempre più difficile affrontare cambiamenti sconvolgenti.
Il ritardo politico è pure sociale, territoriale e culturale. Sostiene Luca Ricolfi che in Italia le difficoltà maggiori si riscontrano in una spiazzante “zona clientelare”, caratterizzata dall’appartenenza e non dal merito.
Argomenta: “Non è strano che […] il parametro di meritocrazia, che misura la capacità del sistema di apprezzare le persone per quel che valgono (anziché per la rete di relazioni in cui sono inserite), stenti ad emergere [in Italia] […]. La “Zona clientelare”, formata da Zona rossa e Zona di mafia, con […] parametri di meritocrazia nulli, appare il territorio più antimeritocratico del paese. Il Sud non mafioso […] appare come una sorta di luogo della speranza: è lì che il parametro di iniquità assume valori fra i più alti, ma è lì – più che in qualsiasi altra parte d’Italia – che una scuola di qualità potrebbe fare la differenza, premiando i capaci e meritevoli e attenuando i condizionamenti dell’origine sociale”. (P. Mastrocola, L. Ricolfi, Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La nave di Teseo, Milano 2021, pp. 211-212).
La sfida del Pnrr
Sui circa 250 miliardi del Pnrr, 32 sono riservati all’istruzione per rafforzare il sistema educativo dagli asili alle università e per sostenere la ricerca integrandola con il sistema produttivo.
Le voci di investimento più consistenti riguardano l’edilizia scolastica e le attrezzature tecnologiche cioè si tratta di appalti. Pertanto, la partita decisiva dell’istruzione si deve giocare essenzialmente sulle regole, ponendo in primo piano la qualità degli insegnanti, l’efficacia della spesa sulla formazione degli studenti e il raccordo del mondo della ricerca con quello del lavoro.
Però, se prevarrà la gestione burocratica e non la visione politica, il Pnrr rischia di avere un impatto trascurabile.
A questo riguardo, il nostro Osservatorio intenderà monitorare e verificare l’effettivo impatto della qualità spesa del Pnrr sull’istruzione.
L’Italia che verrà
L’Italia dei prossimi anni sarà più anziana, con pochi giovani e più immigrati, meno ricca e sostanzialmente meno istruita.
Eppure in Italia un piccolo aumento reale negli indicatori Ocse-Pisa potrebbe comportare un aumento del Pil del 5%.
Al momento, il futuro è a rischio. “A Nation at Risk” era il titolo del rapporto statunitense del 1983 che in piena guerra fredda poneva in relazione la debolezza dell’istruzione con la sicurezza e l’indipendenza nazionali.
In base ai dati della povertà educativa, già oggi è possibile prevedere il possibile destino futuro delle persone, soprattutto in alcune aree degradate.
Con riferimento alla California, nel novembre dell’anno scorso sul Wall Street Journal, l’imprenditore della Silicon Valley Dave Welch affermava: “Quello che stiamo facendo ai nostri ragazzi è orrendo. Non riesco a pensare a una più grande perdita di potenziale di quella derivante dalla scarsa qualità dell’insegnamento dei nostri figli”. Concludeva che per molti studenti si potrebbe spaventosamente ipotizzare “di quale istituto penitenziario avranno bisogno” (Andy Kessler, Il fatiscente pilastro dell’istruzione, Wall Street Journal, 28.11.2021)
Non sono considerazioni remote, che provengono dall’aldilà dell’Atlantico, se si pensa che in Italia alcune ricerche evidenziano che, per esempio, nelle estreme periferie napoletane i figli delle famiglie a rischio hanno una possibilità di delinquere di un terzo più alta.
Il richiamo costante all’istruzione è soltanto retorico. Riferendosi all’Italia degli anni Settanta, Pier Paolo Pasolini, che aveva acquisito la sua capacità eretica e profetica studiando nelle scuole e nell’università disegnate da Giovanni Gentile, osservava: “Si tratta di una democrazia, di un progresso puramente enfatici. Nomi non cose. Il che significa cose che non hanno ancora un nome”, (P.P. Pasolini, Pannella e il dissenso, CdS 18.7.1975).
Adesso, con l’avvento del mondo digitale non abbiamo i nomi e le categorie culturali per descrivere la realtà e con lo sviluppo dell’intelligenza artificiale la maggioranza dei lavori sarà svolta dagli algoritmi. Questo significa, come evidenziava Yuval Noah Harari, che “già oggi il tasso delle nascite è in diminuzione nei paesi tecnologicamente avanzati come il Giappone e la Corea del Sud, dove sforzi prodigiosi sono stati investiti nell’allevare e nell’istruire sempre meno bambini […]. Che cosa preferiranno fare le élite indiane, brasiliane o nigeriane nel prossimo secolo? Investire denaro al fine di risolvere i problemi di centinaia di milioni di poveri o per potenziare la frazione milionaria della popolazione? A differenza del XX secolo, quando le élite avevano interesse alla risoluzione dei problemi dei poveri, poiché essi erano vitali da un punto di vista militare ed economico, nel XXI secolo la strategia più efficiente (benché spietata) potrebbe essere lasciare andare le inutili carrozze di terza classe e far procedere soltanto la prima”, (Y.N. Harari, Homo Deus. Breve storia del futuro, Bompiani, Milano 2017, pp. 531-532).
Inoltre, nelle società occidentali l’aumento del livello dell’istruzione, in alcuni casi e in alcune regioni del nostro Paese, non è riuscito, per come è stato perseguito, a invertire il sottosviluppo.
In ogni caso, la qualità degli insegnanti è fondamentale. Secondo Piero Calamandrei, la scuola doveva essere considerata “un organo costituzionale”, per cui la mancata qualità dell’istruzione a causa della inadeguatezza di chi la impartisce, cioè insegnanti scolastici e universitari, potrebbe rappresentare una “violazione costituzionale”.
Infatti, è determinante la qualità dei dirigenti e dei docenti. Tra questi ultimi nelle scuole ce ne sono circa 200 mila senza abilitazione. Negli atenei, invece, con le abilitazioni di massa, si è creato un pericolosissimo precariato universitario che si aggiunge a quello esplosivo generato nel mondo scolastico.
In tale quadro, assume un ruolo fondamentale l’educazione digitale che dovrebbe diventare una materia di base come leggere, scrivere e far di conto, trasversale a tutti i saperi, poiché le attività umane si svolgeranno sempre di più sulla Rete. È un indifferibile problema di educazione nazionale e di sicurezza nazionale.
L’educazione tempo del futuro
C’è bisogno, allora, di interventi strutturali, definendo al più presto una pedagogia della nazione che prepari l’Italia del futuro.
In genere, si inseguono mode educative e criteri di valutazione dei docenti importati dal modello anglosassone e ispirati dalle discipline scientifiche, con valutazioni quantitative e non qualitative che rappresentano l’opposto della profondità della ricerca.
I dati delle classifiche internazionali ci restituiscono la debolezza educativa italiana, che non può essere coperta dall’alibi delle pur innumerevoli eccellenze scolastiche e universitarie esistenti.
Il basso livello di istruzione sostanziale non solo investe direttamente lo sviluppo dell’economia e la natura della democrazia ma espone ai rischi della società della disinformazione, con la manipolazione costante dei cittadini.
Poiché i fatti e i dati sono davanti agli occhi di tutti occorrerebbe essere conseguenti.
L’Osservatorio sulle politiche educative dell’Eurispes intende porre il problema della qualità dell’educazione, studiandolo con serietà per proporre soluzioni prossime e possibili.
Infatti, siamo convinti che “il futuro non si aspetta, il futuro si prepara”.