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Ecco come l’Occidente potrà rivaleggiare con la Via della Seta cinese

Biden e von der Leyen hanno rispolverato il programma di investimenti globali di Usa e Ue lanciato durante lo scorso G7 come contraltare alle Vie della Seta cinesi. La paura è che possa essere l’ennesimo roboante annuncio privo di reale sostanza. Se vogliamo competere con il soft power cinese dobbiamo cominciare a fare sul serio, adottando un approccio commerciale strategico con le economie emergenti

Durante il summit G20 di Bali, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen hanno richiamato la Partnership for Global Infrastructure and Investment (Pgii), un piano da $600 miliardi di dollari per competere con l’iniziativa cinese della Belt and Road Initiative (Bri). La Pgii era già stata presentata durante lo scorso vertice G7.

Il rischio di un ennesimo piano per lo sviluppo delle economie emergenti è quello di non arrivare a risultati che riescano davvero a spostare l’asse delle alleanze globali.

Di certo è una buona notizia che Europa e Stati Uniti decidano di investire nelle infrastrutture dei Paesi in via di sviluppo per rivaleggiare con il soft power della Repubblica Popolare. La Bri cinese, pur con molti impedimenti e contraccolpi, prestiti-trappola e pentimenti, procede nella sua opera di massicci investimenti in porti, strade, reti ferroviarie ed energetiche.

Al contrario, i progetti come l’americano Build Back Better World, o l’europeo Global Gateway Initiative non hanno riscosso per ora particolari risultati, né particolari entusiasmi nelle economie emergenti. A ricordarlo è il fatto che al discorso di Biden e von der Leyen le uniche developing countries presenti erano Indonesia e India, la prima ospitante il G20, la seconda nemica della Cina.

Purtroppo, l’Occidente (e soprattutto l’Europa) è molto abile nel proclamare grandi iniziative, ma mentre i cinesi nel 2010-2013 iniziavano a “buttare cemento e acciaio” in Africa, nell’Indo Pacifico e nel Sud Est asiatico, noi prestavamo scarsa attenzione al fenomeno, ritrovandoci qualche anno dopo a doverlo rincorrere con vaghe promesse.

La principale accusa rivolta alla Belt and Road Initiative è quella della cosiddetta “trappola del debito”, ovvero che la Cina proponga crediti eccessivi a nazioni che poi non sono in grado di ripagarli, consentendo a Pechino di prendersi in cambio asset nazionali di varia natura, come successo tra l’altro in Sri Lanka, Montenegro e una serie di Paesi africani.

L’esperta del Center for Strategic and International Studies, Erin Murphy, sostiene che il vantaggio competitivo occidentale andrebbe ricercato nella qualità, piuttosto che inseguire la “quantità” dei progetti cinesi, probabilmente inarrivabile.

Certo, la Repubblica Popolare gode di un vantaggio strutturale non trascurabile, ovvero il controllo politico diretto sull’economia. Bruxelles e Washington non possono, ovviamente, obbligare le compagnie, anche se vorrebbero coinvolgere il settore privato nelle proprie strategie globali. A dire il vero, la Pgii vorrebbe presentare due aspetti di novità, ovvero l’attrarre investimenti privati e l’enfasi posta sull’essere una partnership, e non un set di sforzi nazionali singoli.

Come fa notare l’esperto Kaush Arha, perché questo meccanismo abbia successo è necessario che vengano intrapresi una serie di step. In primo luogo, dovrebbe essere nominata un’agenzia sovranazionale che rappresenti ogni Stato parte e ne coordini i lavori, oltre a stabilire chiaramente gli obiettivi e i mezzi per raggiungerli.

In secondo luogo, questo organo dovrebbe eseguire una precisa valutazione di tre principali drivers of demand: la domanda della nazione ospite di infrastrutture di alta qualità; la domanda di questi asset da parte del settore privato e la quantificazione dei ritorni sugli investimenti; infine, considerazioni di ordine geopolitico se il Paese ospite si trova in un quadrante strategico (ad esempio le isole del Sud Pacifico).

Le iniziative europee includono impianti fotovoltaici galleggianti in Albania, progetti sull’idrogeno in Namibia, Egitto, Kazakistan, India e Cile. Mentre quelle statunitensi si concentrano soprattutto sui sistemi sanitari in Paesi come Timor Est e Brasile.

Ulteriore elemento critico per l’Occidente, soprattutto per l’Europa, è il ricordo ancora vivo del colonialismo. Pechino si presenta, soprattutto nel continente africano ma non solo, come un attore privo di precedenti esperienze coloniali, oltre a promettere mutui benefici al posto della depredazione delle risorse che molti Stati hanno vissuto da parte delle vecchie potenze.

Insomma, se si vuole rivaleggiare con la Cina anche sul lato soft power è tempo di fare le cose sul serio. E’ estremamente importante che l’Occidente non perda terreno lasciando ampio margine di manovra alla Cina su Paesi che giocheranno ruoli importanti per il nostro futuro economico.

Sull’Unione Europea c’è da dire che spesso sembra trovarsi indecisa tra il perseguire scelte economiche strategiche e semplicemente il fare affari. Come ha ricordato Politico, un passo importante per Bruxelles potrebbe essere quello di trasferire le competenze di Global Gateway dal Directorate-General for International Partnerships all’External Action Service. La mossa potrebbe essere un buon messaggio per mostrare il valore strategico, e non puramente commerciale, che l’iniziativa assume per l’Unione, assegnandola a un servizio che si occupa di politica estera europea e non solo di scambi economici.


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