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Guida alle elezioni di metà mandato, seggio per seggio

Alla vigilia del voto, una mappa elettorale per capire quali seggi sono in ballo per il controllo della Camera e del Senato americani. Dal risultato di domani dipenderà l’agibilità dell’Amministrazione Biden nei prossimi anni, e gli effetti avranno un riverbero anche sulla corsa alle presidenziali 2024

MIDTERM 2022

L’ordinamento statunitense prevede che tutti i 435 membri della Camera affrontino il giudizio delle urne ogni due anni. Diverso è il caso del Senato, che ogni due anni si rinnova solo per un terzo dei suoi cento membri, dato che il loro mandato è pari a sei anni invece che due. Quando le elezioni per il rinnovo della Camera e per il rinnovo parziale del Senato non coincidono con la quadriennale elezione del presidente, a livello internazionale queste elezioni ricevono spesso meno attenzione di quanto meritano.

Domani gli elettori decideranno se privare il presidente Joe Biden delle sue maggioranze di governo, oppure se concedere al Partito Democratico un biennio di maggior controllo della Camera e del Senato. Di maggior controllo perché le elezioni generali del 2020 si sono risolte in un Senato in cui Democratici e Repubblicani si sono aggiudicati cinquanta seggi ciascuno e, quindi, al controllo per così dire de jure del Senato, assicurato dal voto del vicepresidente Kamala Harris, non ha corrisposto un controllo de facto dello stesso.

Questo perché l’amministrazione Biden si è subito contraddistinta per una visione che spicca come tra le più ambiziose e radicali della recente storia statunitense. Una visione sicuramente difficile da implementare anche nel caso in cui l’amministrazione Biden avesse potuto contare su una maggioranza molto più forte di quella emersa dalla precedente tornata elettorale, che per i suoi margini ridotti ha reso fondamentale il voto di moderati  quali, tanto per fare un esempio, Joe Manchin il senatore democratico della West Virginia che ha dimostrato di condividere solo molto parzialmente l’agenda del suo stesso partito e, più in particolare, di rifiutarne la parte destinata a modificare l’assetto istituzionale del suo paese, per quanto caldeggiata dall’amministrazione Biden.

In aggiunta poi a una grande serie di cariche minori, le elezioni di metà mandato decideranno il destino di trentasei su cinquanta governatorati. A oggi, i governatori democratici sono ventidue mentre sono ventotto i governatori repubblicani. Anche in questo caso, come per il Congresso, la forte polarizzazione che ormai da qualche tempo contraddistingue il sistema politico statunitense, da ultimo se possibile ulteriormente accentuata dalla distanza che spesso ha separato i governatori dal governo federale in merito al modo con il quale fronteggiare la pandemia, ha reso queste competizioni elettorali ancora più combattute di quanto non lo siano mai state in passato e, soprattutto, più disgiunte e indipendenti nei loro risultati da quelle destinate a decidere la natura dell’esecutivo oppure del legislativo.

Non sorprendentemente, gli elettori decideranno il proprio voto soprattutto in base all’andamento dell’economia. Più precisamente in ossequio a una percezione dell’andamento dell’economia il cui fattore principale è il livello raggiunto dall’inflazione, il più alto da quarant’anni a questa parte, cosa questa che non può non favorire i Repubblicani. Criminalità e immigrazione sono altri due temi che sembrano favorire il Partito Repubblicano, perché in grado di motivarne fortemente la base e, con tutta probabilità, di orientare in direzione di questo partito intere aliquote d’Indipendenti e di Democratici moderati.

Dovrebbe poi tornare a vantaggio dei Repubblicani anche il fatto che l’elettorato chiamato a rinnovare il Senato nella maggior parte di questi trentasei Stati è in prevalenza bianco e rurale, in una chiara sovra rappresentazione rispetto alla relativa quota del totale della popolazione statunitense. Inoltre, continuando ad attestarsi su livelli di popolarità tutto sommato bassi, il presidente Biden non sembra davvero in grado di esercitare un ruolo di traino in un’elezione che potrebbe finire con il caratterizzarsi più come un referendum sulla sua persona che sull’operato del suo partito.

D’altra parte, altri fattori sembrano intervenire a favore del Partito Democratico, a iniziare dalla fiducia attribuita a questa forza politica in merito a cose quali il contrasto al cambiamento climatico e il controllo delle armi da fuoco, mentre occupa senz’altro un posto di rilievo l’annosa questione dell’aborto, ritornata prepotentemente in primo piano in conseguenza della recente sentenza della Corte Suprema, grazie alla quale sono di nuovo i corpi legislativi dei singoli Stati a decidere l’ammissibilità e le modalità dello stesso.

CAMERA MIDTERM 2022

Nei giorni successivi alla recente decisione della Corte Suprema di riportare l’aborto sotto il diretto controllo degli Stati, la possibilità di un’affermazione elettorale dei Democratici tale da lasciare nelle loro mani la Camera era sembrata un qualcosa di tutt’altro che improbabile. E questo nonostante che negli ultimi settant’anni il partito del presidente nelle elezioni di metà mandato abbia perso in media qualcosa come venticinque seggi, vale a dire un numero ben più alto dei soli due seggi che hanno fin qui consentito il controllo democratico della Camera. Da ultimo, una solida vittoria dei Repubblicani sembra invece avvalorata oltre che dai precedenti storici anche dalle presenti circostanze. Tra queste, un ruolo importante ha svolto la recente riorganizzazione dei distretti elettorali, in particolare in Stati quali Florida, Maryland e New York, tanto che almeno per il momento, d’incerta sembra esserci solo l’entità della loro affermazione.

Da sempre, in queste competizioni elettorali, il candidato in carica (l’Incumbent) è di solito rieletto potendo disporre nei confronti dei propri rivali di vantaggi intrinseci quali un nome già conosciuto e ben collaudate reti di raccolta fondi. Questi due fattori sembrano avvantaggiare i Repubblicani, perché i Democratici che, per una ragione oppure per l’altra, quest’anno non cercano la rielezione sono trentadue, vale a dire molti di più dei Repubblicani che hanno condiviso questa stessa decisione. Tuttavia, i diciotto Repubblicani che hanno rinunciato a ricandidarsi alla Camera, impediscono al Partito Repubblicano di giocare esclusivamente in attacco e di concentrare le proprie risorse nella conquista dei collegi elettorali lasciati, per così dire, scoperti dai Democratici. Cosa questa che potrebbe condurre alla conquista da parte dei Repubblicani di una maggioranza più piccola di quanto non ci si aspetti.

Tra i Repubblicani che andranno presto in pensione spiccano i nomi di Fred Upton del Michigan, John Katko di New York, Adam Kinzinger dell’Illinois e Anthony Gonzales dell’Ohio, vale a dire di quattro dei dieci Repubblicani che dopo aver votato a favore dell’Impeachment dell’ex presidente Donald Trump non sono riusciti a superare con successo le rispettive elezioni primarie, a riprova di quanto sia ancora salda la presa di quest’ultimo sul suo partito. Cosa del resto dimostrata anche dall’umiliante sconfitta subita, sempre alle elezioni primarie del Partito Repubblicano del Wyoming da quella Liz Cheney che ha prima votato per l’Impeachment e poi presieduto la commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti del 6 gennaio.

Dei trentadue Democratici che abbandonano il Congresso, otto sono membri del Congressional Black Caucus, cosa questa che dovrebbe preludere a un loro avvicendamento con nuovi e più giovani membri della loro comunità dall’orientamento con tutta probabilità ancora più progressista. Altri sette sono stati eletti in quel feudo democratico che ormai da molti anni è la California, e anche in questo caso è molto improbabile che siano sostituiti da dei Repubblicani. Lo stesso non si può però dire nel caso di altri diciassette collegi e, più in particolare, nel caso di sette di questi seggi lasciati vacanti dai Democratici il cui destino era stato deciso alle elezioni generali di due anni fa con uno scarto di pochi punti percentuali e, quindi, davvero aperti a qualsiasi risultato. Ne consegue che sono almeno venti i seggi al momento occupati dai Democratici il cui risultato elettorale è tutt’altro che certo, quasi esattamente il doppio dei seggi altrettanto incerti al momento occupati dai Repubblicani.

Se, come sembra, i Repubblicani acquisiranno il controllo anche solo della Camera, non solo la presidenza Biden si ritroverà in una situazione di quasi paralisi, ma molto probabilmente trascorrerà i prossimi due anni a dover fronteggiare un’intera serie d’indagini promosse da nuove commissioni d’inchiesta parlamentari questa volta a guida repubblicana e, forse, anche l’Impeachment. D’altra parte, se smentendo ogni previsione, il Congresso finisse sotto il pieno controllo democratico, il presidente Biden potrebbe infine riuscire nel far approvare gli elementi più progressisti di un’agenda ancora lontana dall’implementazione. In un caso come nell’altro, la forte polarizzazione tipica del sistema politico statunitense di questi ultimi tempi sembra solo destinata ad aumentare.

SENATO MIDTERM 2022

Se il destino della maggioranza democratica alla Camera sembra segnato, lo stesso non si può dire per quanto riguarda il predominio democratico al Senato dove, sebbene i Repubblicani sembrino favoriti, l’incertezza che a soli pochi giorni dal voto avvolge ancora queste elezioni è tutt’altro che piccola. Le Elezioni Generali del 2020 hanno prodotto un Senato diviso esattamente a metà, con cinquanta senatori per parte, il cui stallo è risolto solo dal voto del vicepresidente, in questi ultimi due anni la democratica Kamala Harris. La maggior parte dei trentasei seggi in palio l’8 novembre è ora in mani repubblicane, cosa questa che in teoria dovrebbe assicurare un certo vantaggio ai Democratici. Tuttavia, per assicurarsi il controllo del Senato anche nel prossimo biennio, i Democratici devono mantenere i seggi vinti in luoghi a loro tradizionalmente ostici come Arizona, Georgia e Nevada, oppure prenderne altri in Stati sicuramente non meno ostici come Ohio, North Carolina e Pennsylvania.

Il seggio senatoriale che più di ogni altro sembra alla portata del Partito Democratico è quello dell’Arizona, dove l’ex pilota dell’U.S. Navy ed ex astronauta della NASA, Mark Kelly, deve difendersi dallo sfidante repubblicano, Blake Masters, un giovane uomo d’affari. Fino a non molto tempo fa un feudo repubblicano, l’Arizona si è da ultimo rivelata come uno stato nel quale le elezioni si vincono e si perdono con uno scarto di pochi voti, come nel caso delle ultime presidenziali, vinte dal presidente Joe Biden con un margine del solo 0,3 per cento. Se Kelly sembra in grado di attrarre dalla sua parte un’aliquota non trascurabile di elettori repubblicani è altrettanto vero che Masters sembra affascinare quello stesso elettorato che in genere diserta le urne e cui tanto deve della sua fortuna elettorale l’ex presidente Donald Trump. Notevole la differenza di spesa tra le due campagne elettorali. Kelly ha raccolto qualcosa come oltre ottanta milioni di dollari, di contro Masters non è neppure arrivato a quindici milioni.

Molto più incerto è il risultato dello scontro che vede contrapposto un altro incumbent democratico, il pastore battista Rapahel Warnock a un altro outsider repubblicano, l’ex campione di football Herschel Walker, forse il più grande running back di tutti i tempi. Come l’Arizona anche la Georgia è stata a lungo un feudo repubblicano e come in Arizona anche in Georgia le elezioni da ultimo si vincono e si perdono per una manciata di voti, tanto che due anni fa il presidente Biden si è aggiudicato la Georgia solo grazie a uno 0,2 per cento.

La Georgia ha la più grande popolazione nera di tutte e sei queste competizioni elettorali, ed è nel forte supporto di cui gode tra quest’elettorato e nel consenso raccolto tra la popolazione urbana di una città, Atlanta, in continua crescita, che poggiano le speranze del Partito Democratico. Per Warnock il problema è che anche il suo rivale è nero ed è anche lui originario della Georgia. A ben guardare, Warnock e Walker rappresentano due diverse facce dello stesso sogno americano e tutte e due potrebbero ritrovarsi ancora l’uno di fronte all’altro ai primi di dicembre nel caso in cui né l’uno né l’altro raggiungesse quel cinquanta per cento che gli eviterebbe di doversi affrontare in un ballottaggio. Nel frattempo, il volume di denaro raccolto da Warnock per finanziare la sua campagna elettorale è enorme, oltre centodieci milioni di dollari. Da parte sua Walker ne ha raccolti molti di meno, circa trenta milioni.

Anche in Nevada il risultato dello scontro tra la senatrice democratica Catherine Cortez Masto e l’ex Attorney General Adam Laxalt sembra ancora incerto a pochi giorni dal voto. Questo non lo si deve solo alla competenza dei due candidati, ma anche e soprattutto a una demografia particolarmente fluida. A questo proposito un’importanza particolare è rivestita dal fato che circa la metà degli aventi diritto al voto si sono iscritti al registro elettorale solo dopo il 2016, l’anno in cui Cortez Masto divenne senatrice, e che solo un terzo dei suoi abitanti è nato in questo stato. Un altro elemento d’incertezza è dato dal fatto che il Nevada è andato due anni fa al presidente Biden con un margine di vantaggio del 2,4 per cento, vale a dire ancora all’interno dell’errore probabile dei migliori sondaggi. Infine, anche questa competizione si distingue per un deciso dislivello nel volume di finanziamenti elettorali, quasi cinquantasei milioni di dollari per Cortez Masto contro i quasi sedici di Laxalt.

In Ohio, i Democratici affrontano una strada davvero in salita. Tuttavia, anche in questo caso, non c’è ancora nessuna vera certezza sull’esito di quest’elezione soprattutto per via delle caratteristiche stellari del candidato democratico, Tim Ryan, uno dei membri più prestigiosi del suo partito, forte di un’ormai ventennale esperienza alla Camera dei Rappresentati. Le speranze dei Repubblicani poggiano su un altro outsider, J. D. Vance, famoso soprattutto per il successo conseguito prima con il libro e poi con il film autobiografico dal titolo Hillbilly Elegy nel quale racconta di una sua gioventù ricca solo di povertà e disperazione. Da notare che l’ex presidente Trump ha vinto questo stato alle ultime elezioni con ben otto punti percentuali di vantaggio ma che anche in questo caso il candidato democratico ha raccolto una mole di finanziamenti di gran lunga superiore a quella del suo avversario repubblicano, quasi sessanta milioni di dollari contro dodici.

Per quanto ancora tutt’altro che solidamente repubblicano come fino a non molto tempo fa, North Carolina è ancora uno stato nel quale le possibilità di vittoria per i candidati repubblicani sono ancora tutt’altro che trascurabili. Ciononostante, è difficile fare previsioni su chi uscirà vincitore nello scontro tra la democratica Cheri Beasley e il repubblicano Ted Budd. Questo perché entrambi non sono certo privi di una solida esperienza politico-istituzionale, avendo già ricoperto importanti cariche pubbliche, nella Corte d’appello di questo Stato nel caso di Beasley e alla Camera dei Rappresentanti nel caso di Budd, e poi perché l’ex presidente Trump si è da ultimo aggiudicato North Carolina grazie a solo un 1,2 per cento dei voti. Dal punto di vista dei finanziamenti elettorali, neanche North Carolina fa eccezione, confermando la tendenza che vede sempre in testa i candidati democratici, al punto che sono quasi quarantaquattro milioni i dollari raccolti dalla Beasley, tredici quelli raccolti da Budd.

Tra tutti, è quello in Pennsylvania lo scontro che si distingue per gli aspetti più singolari. A contendersi il seggio di senatore in una campagna elettorale che si è distinta soprattutto per gli innumerevoli attacchi personali rivolti dall’uno all’altro candidato, più che sui contenuti programmatici degli stessi, è per i Democratici il Vice Governatore John Fetterman, reduce da un recente infarto dal quale non sembra essersi completamente ripreso, e per i Repubblicani l’ex cardiochirurgo divenuto famoso come conduttore televisivo Mehmet Oz. Due anni fa, il presidente Biden vinse questo Stato grazie a un margine di solo l’1,7 per cento, troppo poco per trarre qualche seria indicazione su quello che sarà l’esito di un’altra elezione nella quale il dislivello nei finanziamenti a disposizione dei due rivali è però meno marcato del solito: circa cinquantasette milioni per Fetterman, circa quaranta milioni per Oz.

Concludendo, per quanto riguarda il Senato, Democratici e Repubblicani sono relativamente certi di poter contare nel prossimo futuro solo di quarantasette seggi ciascuno, mentre l’attesa per conoscere il futuro assetto del Senato degli Stati Uniti è molto probabile sia destinata a protrarsi ben oltre la notte dell’8 novembre. Questo perché chiunque vincerà queste così particolari competizioni elettorali, molto probabilmente, prevarrà solo di stretta misura, rendendo decisivo il voto espresso per posta in Stati il cui conteggio è autorizzato solo dopo il conteggio del voto espresso di persona. Per non dire poi della possibilità che si finisca con il dover attendere l’esito di un ballottaggio in Georgia previsto per il 6 dicembre.



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