Dalla tornata elettorale si possono analizzare molti fattori che hanno contribuito al risultato ottenuto alla Camera e al Senato sia dai Repubblicani sia dai Democratici. Con alcune considerazioni che possono segnare il futuro da entrambi i lati. L’analisi di Lucio Martino
Sebbene sia ancora presto per tracciare un quadro completo delle elezioni di martedì scorso per il rinnovo della Camera, di un terzo del Senato e di trentasei governatorati, un’analisi delle stesse è già possibile tanto da poter identificare una prima serie di considerazioni.
La prima è il risultato registrato alla Camera dai Democratici e dai Repubblicani sembra destinato a ben allinearsi con una tradizione che vuole il partito del presidente in carica cedere all’opposizione qualcosa come un venticinque seggi, posto che almeno per il momento, perché restano da assegnare ancora quarantasette seggi, i Repubblicani stanno superando i Democratici 206 contro 182, pari a un vantaggio di ventisei seggi.
La seconda è che i Democratici sembrano in crisi in più di una loro roccaforte, come nel caso di alcuni distretti nella zona di New York dove margini di vittoria dell’ordine del venti per cento si sono ridotti a poco più di cinque punti percentuali. E questo senza menzionare la sonora sconfitta patita da uno dei più illustri esponenti del partito democratico newyorkese come Patrick Maloney.
La terza riguarda il Senato. Nelle tre competizioni delle sei ritenute aperte a ogni risultato in cui i Repubblicani si sono ritrovati a dover difendere un seggio in più privo dell’incumbent, i loro sforzi sono stati coronati dal successo per i due terzi, vale a dire vale a dire Ohio e North Carolina. Da parte loro i Democratici non sono riusciti a difendere le loro tre analoghe competizioni elettorali con la stessa percentuale di successo, non avendo a quanto sembra ancora vinto in Arizona, avendo perso in Nevada e rimandato la Georgia a un nuovo ballottaggio.
La quarta è focalizzata sullo scontro in Pennsylvania tra John Fetterman e Memeht Oz. Due i fattori che sembrano aver contribuito in misura decisiva alla vittoria del democratico Fetterman. Il primo è che l’estremismo delle sue posizioni si è rivelato vincente nei confronti del moderatismo quasi centrista del repubblicano Oz. Dinamica per il vero comune a molte altre elezioni a riprova del fatto che in questa così particolare stagione politica statunitense le elezioni si perdono al centro e si vincono portando al voto le fasce d’elettorato più estreme, cosa questa in cui Donald Trump è maestro. Il secondo è l’incidenza di un voto anticipato che rende inutile le fasi finali delle campagne elettorali. Forte è il consenso sul fatto che se il dibattito televisivo tra Fetterman e Oz non si fosse svolto dopo il voto di qualcosa come molte centinaia di migliaia di elettori il risultato sarebbe stato ben diverso.
La quinta concerne quello che in prospettiva sembra destinato a essere il nuovo equilibrio di forze al Senato. Al momento i Repubblicani sono in testa nella camera alta quarantotto a quarantasei e tutto lascia supporre che, anche dopo il ballottaggio del 6 dicembre in Georgia, il Partito Democratico non riuscirà a raggiungere quei cinquantuno seggi che avrebbero l’effetto di emanciparlo dal voto di un senatore democratico, quel Joe Manchin di West Virginia, che ha già abbondantemente dimostrato di condividere l’agenda dell’amministrazione Biden solo molto parzialmente.
La sesta descrive l’impatto di una spesa elettorale che, per quanto spesso enorme, non sembra davvero garantire risultati a essa proporzionali. In molte di queste elezioni i candidati democratici hanno speso tre, quattro anche cinque volte più dei loro rivali repubblicani, senza per questo emergere dalle urne in maniera decisa.
La settima si può riassumere nell’impossibilità di elevare la Florida a modello dell’intero paese e, quindi, di considerare Ron De Santis come il miglior possibile candidato repubblicano alla Casa Bianca nella prossima tornata elettorale del 2024. Questo perché la lusinghiera affermazione del governatore della Florida si deve da una parte al voto di un particolare gruppo di elettori che qualcuno non senza una certa ironia ha definito come i Covid Refugees, ovvero di quelle migliaia e migliaia di cittadini statunitensi che si sono trasferiti in Florida per sfuggire ai lockdown imposti nei loro Stati a guida democratica a partire dalla primavera del 2020; la seconda a un appiattimento del Partito Democratico sulle posizioni di Black Lives Matter particolarmente inviso a una numerosa e importante comunità cubana che ha così votato in massa per i Repubblicani, consegnando a quest’ultimi la vittoria anche in una contea democratica fino a oggi apparentemente inespugnabile quale Miami Dade.
La ottava e ultima osservazione riguarda l’impatto che questa tornata elettorale ha avuto su una serie di importanti esponenti democratici. Personaggi del calibro di Stacy Abrams, Beto O’Rourke, Tim Ryan e il già menzionato Maloney, tutti dalle grandi ambizioni, sono andati incontro a delle cocenti sconfitte che con tutta probabilità segnano anche la fine della loro finora apparentemente sfolgorante carriera dischiudendo nuovi spazi per altre e più giovani leve con tutta probabilità dalla visione politica ancora più progressista.