Il Mose ha salvato ieri dall’acqua alta Venezia. A soli tre anni di distanza da quando invece la città fu colpita da un’alluvione con acqua a 187 centimetri. È giunta l’ora adesso di avviare un confronto nelle comunità scientifiche italiane e internazionali sul complesso di interventi da realizzare dal momento che gli effetti dei cambiamenti climatici incidono sull’accelerazione degli eventi avversi. La ricostruzione, e le proposte, di Erasmo D’Angelis
A 49 anni della legge speciale per Venezia, 9 anni in più della biblica traversata di Mosè con il suo popolo nel deserto, il sistema di paratie mobili del più grande cantiere idraulico del mondo, funziona.
Ieri, azionato per la 35esima volta dal 3 ottobre 2020, ha fermato la terza marea più alta della storia di Venezia, ed è stato il suo primo vero stress-test catastrofale.
Abbiamo ancora negli occhi il grande spavento mondiale di martedì 12 novembre 2019, la sera in cui entrarono in laguna le acque alte a quota 187 centimetri a Punta della Salute, la seconda alta marea di sempre, appena 7 centimetri in meno dell’Aqua Granda che il 4 novembre del 1966 allagò tutta la città con un metro sopra piazza San Marco. La marea, tre anni fa, Granda trovò ancora indifesa la città più delicata del Pianeta davanti a un Adriatico gonfio e spinto dalle correnti e da un forte vento che sollevava la laguna, e la sommerse per quasi due metri, trattenendola in città con raffiche a 100 chilometri orari che staccarono le imbarcazioni dagli ormeggi, sollevandole e scagliandole su approdi e calli. Le onde s’infrangevano su ponti e rive, demolirono ringhiere e parapetti, strapparono edicole e balaustre, superando ogni barriera e invadendo androni, negozi ed edifici. L’acqua si prese tutto, e Venezia lasciò il mondo davanti al primo shock climatico in terre d’Occidente, una visione drammatica, con oltre 250 milioni di euro di danni.
Riavvolgiamo il nastro, ed eccoci nel giorno e nell’anno del primo spavento planetario, il 4 novembre del 1966. Dopo l’alluvione tutti ripetevano “non c’è tempo da perdere, dobbiamo salvare Venezia”. E cosa è stato fatto quando le acque si ritirarono, il fango si asciugò, i negozi riaprirono, i tavolini dei bar tornarono al loro posto al suono delle orchestrine nello scenario da favola di San Marco? La prevenzione da “urgentissima” diventò “urgente”, poi “vedremo” e poi si aprì il solito dibattito interminabile e il tempo passava e per difendere l’irripetibile “Patrimonio dell’Umanità” il Parlamento se la prese comoda.
Solo dopo 7 anni, il 16 aprile 1973, ci fu il varo della Legge Speciale per Venezia, la numero 171, che dichiarò “di preminente interesse nazionale” la salvaguardia della città e della sua delicatissima e meravigliosa laguna, un tempo foce deltizia del Piave, del Sile e del Brenta, del cui delta era un braccio il suo Canal Grande. Lo Stato decise di investire risorse come per nessun’altra città o opera pubblica. Ma l’andamento restò lento, e solo 10 anni dopo, con la legge 798 del 1984, fu costituito il Consorzio Venezia Nuova, il soggetto attuatore di un progetto faraonico di ingegneria civile e idraulica in grado, assicurarono, di salvarla da ogni marea.
Ebbero l’idea suggestiva di chiamarlo M.O.S.E., evocando il ritiro biblico delle acque del mar Rosso. Il “sacro bastone” di Mosè era nell’acronimo che richiamava il “Modulo Sperimentale Elettromeccanico”. La progettazione iniziò però solo 6 anni dopo, alla fine degli anni Ottanta e, vista “l’urgenza massima”, i lavori “urgentissimi” poterono iniziare appena 37 anni dopo la grande piena del Novecento. Ora, 37 anni fanno 13.505 giorni peraltro con ben 37 diversi governi della Repubblica! E se fossero ancora vivi i veneziani della Serenissima Repubblica, così abili nei lavori di scavo di piccoli canali ai limiti della laguna, come nella deviazione titanica del Brenta e del Bacchiglione, come la prenderebbero? Quegli ingegneri dovettero affrontare il più potente dei nemici della loro Venezia, le acque del Po che l’avrebbero annientata, inventando un riassetto su vasta scala da top ten dell’idraulica storica.
Nel Palazzo ducale, negli archivi del Savio delle Acque, sono custodite le mappe e i calcoli del “Taglio del Po” a Porto Viro, proposto nel 1556 con l’immissione nella sacca di Goro grazie allo scavo di un canalone lungo 8 chilometri verso il mare che salvò la città allontanando le acque del grande fiume dalla laguna. Già il 16 settembre 1604, il provveditore Giacomo Zane poté comunicare al doge: “Hoggi alle ore 19, con il favor del Signor Iddio, si ha data l’acqua al nuovo taglio […]. E si spera apporti a Vostra Serenità quel servizio che è desiderato a beneficio pubblico”. L’impossibile fu realizzato in soli 4 anni, altro che i quattro decenni di attesa del mitologico M.O.S.E., che ha drenato tutte le risorse della Legge Speciale.
Era il 14 maggio 2003 quando iniziarono i lavori per il progetto di chiusura mobile contemporanea delle tre bocche di porto con 78 gigantesche paratoie mobili poste sul fondo, dove giacciono per larga parte del tempo per essere sollevate al salire della marea e dell’allarme rosso, per fare appunto da diga. Sono trattenute al fondo da cerniere mai sperimentate nel mondo, vincolate a 20 cassoni di alloggiamento nei fondali collegati tra loro da tunnel per ispezioni tecniche, con altri sei cassoni di spalla con dentro impianti e tutto il necessario al funzionamento, e gestite dai più avanzati sistemi tecnologici.
Per evitare gare a evidenza pubblica, fu incaricato dell’esecuzione come concessionario unico il Consorzio Venezia Nuova, che assorbì tutti i finanziamenti stanziati per la salvaguardia di Venezia. Il meccanismo, assicurarono, avrebbe garantito “entro il 2016” un livello di sicurezza pari a quello del sistema che sbarra la foce della Schelda per proteggere Amsterdam, o delle Thames Barriers che oppongono paratie alte come palazzi di sei piani alle alte maree dalla foce del Tamigi.
Dopo quasi quattro decenni, il costo stratosferico del progetto, sempre al rialzo, è passato dagli iniziali 3,4 miliardi di euro a oltre 6 miliardi, e salirà fino alla cifra di circa 8 miliardi considerando tutte le opere di contorno e per la salvaguardia della Laguna. Sprechi, fondi extracontabili e schifosissime tangenti hanno fatto da contorno alla mega-opera attesa come “salvifica”. Il “tangentificio” del M.O.S.E venne a galla il 4 giugno del 2014, e finirono in manette 35 persone con in testa Giovanni Mazzacurati allora Presidente del Consorzio e “padre” della grande opera, parte della classe dirigente del Veneto e con arresti eccellenti.
I lavori furono bloccati, facendo slittare ulteriormente la data di consegna dell’opera, con lo stallo dei mitologici cantieri furono abbandonati a lungo al loro destino le parti già realizzate che, senza più manutenzione, rimasero esposte a deterioramento e corrosione dei materiali, con fessurazioni dei cassoni sommersi. Più si ispezionava nel tempo la struttura subacquea, più emergevano paratoie aggredite da ruggine con vernici antincrostazioni erose, un paio fuori dai cassoni per sedimenti sabbiosi, cerniere corrose nonostante le assicurazioni della ditta costruttrice di cent’anni di resistenza, difetti nella tenuta idraulica delle gallerie, valvole da sostituire, la conca di navigazione a Malamocco progettata per consentire l’accesso al porto di Venezia anche a M.O.S.E. chiuso costata 400 milioni ma realizzata nel modo sbagliato. E poi scarsi controlli e caos di competenze nella gestione con commissari, commissari speciali, ordinari, fino all’attuale Commissario Straordinario per il Mose, Elisabetta Spitz, che è riuscita a realizzare un vero miracolo superando mille problematiche.
La prima prova la fissarono il 4 novembre 2019 con il completo sollevamento di tutte le paratoie alla bocca di porto di Malamocco. Pronti, partenza, via? No, fermi tutti! Anzi, dietrofront! Test parziali preliminari evidenziarono nuovi problemi, e tutto si bloccò. Ma non l’alta marea. La seconda prova ci fu il 10 luglio 2020. Dopo le 11, nelle tre bocche di porto che uniscono l’Adriatico con la laguna, dal fondo del mare le 78 paratoie colossali d’acciaio incernierate nel calcestruzzo si alzarono fra gorghi e mulinelli e, per la prima volta, la laguna di Venezia fu separata dal suo mare. La prima prova totale di chiusura delle bocche di porto venne effettuata con una serenissima marea da appena 65 centimetri. Resisteranno a tempeste e fortunali e contro maree ben più alte?
E venne il 22 novembre 2022. Un Adriatico da scirocco e bora a 113 chilometri all’ora, e la marea a circa 2 metri sul medio mare, rischiava di essere il catastrofico replay del 4 novembre 1966 e del 12 novembre 2019. Ma la differenza l’hanno fatta le dighe gialle salvando Venezia e anche Chioggia, e separando mare e laguna. A Venezia non si sono superati i 66 centimetri nonostante la marea salita già alle 10 a 204 centimetri alla bocca di porto di Malamocco, a 191 alla bocca di Chioggia e 187 alla bocca di Lido, e al 173 registrato dalla piattaforma Cnr in mare.
La terza marea più alta della storia ha visto il Mose azionato per la 35esima volta dal 3 ottobre 2020, come primo vero stress-test catastrofale con due schiere di paratoie a Lido Treporti e Lido San Nicolò e il baby-Mose di Chioggia sollevati già nel pomeriggio di lunedì, fermando l’allagamento della città grazie al superlavoro dei tecnici coordinati dal Commissario straordinario.
Corposi finanziamenti per la sua manutenzione dovranno farlo funzionare con maree alte fino a 3 metri e nei prossimi decenni nei quali Venezia e altre 35 aree costiere italiane dovranno fare i conti con un rialzo del mare in un range da circa 35-40 a 80-100 centimetri a fine secolo. Il cantiere costato oltre 6 miliardi e mezzo, non finirà mai, e speriamo nemmeno di stupire se riusciressero ad affiancarlo con interventi strutturali e non strutturali a difesa di Venezia e della più bella laguna del Mediterraneo vasta 550 km2, 50 chilometri di lunghezza per 11 di larghezza, per il 67% coperta dall’acqua, per il 25% da barene cioè terreni cespugliati emersi ma periodicamente sommersi da maree, con tutt’intorno canaletti d’acqua, e per l’8% da isolotti e valli da pesca arginate. Da decenni avrebbero dovuto integrare l’opera maxima per garantire il miglioramento dello stato ecologico e la tutela delle acque, degli ecosistemi e della biodiversità lagunare.
Serve una svolta di integrazione chiudendo la lunga stagione del muro contro muro. Sarebbe un errore contrapporre le nuove opere del progetto Insulae al Mose, perché sono complementari al sistema di dighe mobili per aumentare la resilienza complessiva.
Mezzo secolo fa, fu l’ingegnere idraulico e docente emerito di idrodinamica a Padova Luigi D’Alpaos, con altri colleghi veneziani, a redigere il progetto delle insulae. D’Alpaos viene dalla grande scuola idraulica italiana di Giulio De Marchi, fece parte della commissione incaricata dal governo di individuare opere di prevenzione dopo le alluvioni del 1966, e ha spiegato in questi anni come il M.O.S.E. sia partito male sottostimando le maree prodotte dai cambiamenti climatici e i costi di gestione e manutenzione, all’inizio fissati a 10-15 milioni di euro all’anno e oggi tra 100 e 120 milioni.
Ormai il M.O.S.E. c’è, e può essere affiancato da altri interventi per l’ecosistema lagunare che con il rialzo delle dighe e con 48 ore di chiusura totale delle bocche rischierebbe processi di anossia e anche il blocco della navigabilità. È la modellistica a lunga scadenza degli effetti meteoclimatici e delle maree che richiede interventi minori ma efficaci che potrebbero persino evitare di far entrare in funzione le dighe con livelli di marea relativamente contenuti, consentendo di sollevarle solo a quote più alte e quindi meno spesso e per periodi più brevi.
Il progetto Insulae va dai perimetri urbani a quote sufficientemente elevate a protezione degli abitati dagli innalzamenti lagunari a 1,20-1,30 metri, al contenimento dell’alterazione del sistema idrodinamico e morfodinamico della laguna con erosione dei fondali e perdita di preziosi sedimenti, dalla bonifica dei fondali da inquinanti al
“sollevamento” della città pompando acqua in profondità contrastando la subsidenza provocata dall’estrazione di acqua per le fabbriche di Marghera nei decenni scorsi e rafforzando le fondamenta provando a rialzarle di 25-30 centimetri con iniezioni di liquidi, e alla manutenzione di edifici e canali per la migliore resilienza nell’assorbimento dell’impatto dell’acqua alta.
Di fronte ad acque sempre più alte e potenzialmente devastanti per gli effetti dei cambiamenti climatici nella loro accelerazione progressiva con il timing che se dal 1966 ha fatto registrare il secondo evento-clou dopo 53 anni nel 2019, quello di ieri è a soli 3 anni di distanza, confermando velocità estrema nei tempi di ritorno.
Insomma, è l’ora di superare il clima di contrapposizione e avviare un confronto nelle comunità scientifiche italiane e internazionali sul complesso di interventi da realizzare.