Ormai il Pd è una sommatoria infinita di correnti, o di bande, nazionali e locali che detengono le sorti del partito e che hanno le chiavi di casa per decidere se far traslocare altrove chi lo guida momentaneamente
In attesa che si celebri l’ennesimo congresso “rifondativo” del Partito democratico – ormai siamo talmente abituati che non fa neanche più notizia – un elemento sta emergendo in tutta la sua chiarezza. E cioè, il Pd dopo questo congresso non sarà più quello fondato nel lontano 2007. Ormai quella stagione politica e culturale è archiviata ed è definitivamente alle nostre spalle. Al di là della comprensibile propaganda della nomenklatura di quel partito, è chiaro a tutti che ci sono almeno 3 elementi decisivi che segnano questa netta discontinuità.
Innanzitutto il profilo principale e prioritario del Partito democratico, ovvero la cosiddetta “vocazione maggioritaria”. Chiusa, archiviata, sepolta definitivamente. Un partito che, con la segreteria entusiasmante, coraggiosa ed innovativa di Walter Veltroni aveva l’ambizione di essere il perno centrale dell’alternativa politica e di governo alla coalizione di centrodestra. Una scelta che, e non solo per l’ormai progressiva ed irreversibile caduta elettorale del partito, è tramontata percheé è venuta a mancare quella spinta originaria. Ovvero di un partito che pensava di rappresentare istanze, bisogni e domande di larghi settori sociali, culturali, professionali e che, invece, hanno col tempo abbandonato con determinazione e convinzione diventando, al contrario, il luogo della rappresentanza borghese, alto borghese, salottiera ed aristocratica, dei “garantiti” e di tutti coloro che ruotano attorno agli interessi delle zone “ztl”.
In secondo luogo, e come conseguenza diretta di questa trasformazione, il Pd non è più la sintesi delle principali culture riformiste del nostro paese. Progressivamente è emerso un profilo politico e culturale di sinistra. Una prospettiva del tutto legittima, come ovvio, ma si tratta di una sinistra che se da un lato è la continuazione della storica filiera del Pci/PDS/Ds/Pd, dall’altro si tratta di una sinistra prevalentemente moralista, giustizialista, libertaria e radicale. Non a caso, un fine osservatore come Luca Ricolfi parla giustamente di una sorta di “partito radicale di massa”. Da qui la perfetta convergenza con la “sinistra per caso” dei 5 Stelle, ossia del partito populista e giustizialista per eccellenza. Una alleanza che, al di là delle piccole scaramucce personali dell’ultima campagna elettorale, è destinata ad essere sempre più solida e granitica.
In ultimo, ma non per ordine di importanza, l’assetto organizzativo interno del partito. Venuta meno quella pluralità culturale che rappresentava, tuttavia, una preziosa risorsa e, al contempo, una ricchezza per l’intero partito, ormai il Pd è una sommatoria infinita di correnti, o di bande, nazionali e locali che detengono le sorti del partito e che hanno le chiavi di casa per decidere se far traslocare altrove chi lo guida momentaneamente. A prescindere chi sia. Con tanti saluti alle cosiddette “correnti di pensiero” che, almeno all’inizio di questo percorso politico, dovevano dar vita ad un progetto politico fecondo e costruttivo. È sufficiente fare un solo esempio, quello dell’area popolare e cattolico sociale, per rendersi conto che quella tradizione ormai è del tutto inespressiva ed assente in quel partito, se non per la distribuzione delle candidature ai capi correnti, ai suoi famigliari e ai cortigiani di riferimento. Il potere delle correnti, o delle bande interne, è ormai assordante e chiunque arrivi alla segreteria deve farci i conti. Al di là, come ovvio, della liturgia sul superamento delle correnti, sul partito rifondato, sull’apertura alla società civile, sulla natura riformista del partito e i soliti slogan che ormai ascoltiamo puntualmente ad ogni cambio di segretario. Cioè, suppergiù ogni 18 mesi.
Ecco perché il Pd è cambiato profondamente. Ed è destinato a cambiare sempre di più. Non a caso, il Centro, la politica di centro, la tradizione popolare e cattolico sociale e le componenti più riformiste ormai guardano altrove. Salvo gli eletti – garantiti nella quota proporzionale – di quel mondo culturale che, comprensibilmente, restano in quel partito. Ed è proprio su questo versante che il Centro politico e culturale deve organizzarsi sempre di più e darsi una struttura politica autorevole, qualificante e duratura. Al di là e al di fuori del Pd, come ovvio. Un luogo politico, però, che non può ridursi alla semplice espressione di partiti personali o di un banale prolungamento del carisma di un capo partito.
Serve ricostruire e consolidare al più presto il Centro e una politica di centro dopo la trasformazione irreversibile del profilo e della natura del Partito democratico. Prima si fa e meglio è. Non solo per il futuro del Centro politico ma, soprattutto, per la qualità della nostra democrazia e l’efficacia della nostra azione di governo.