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Così Pechino prova a salvare la Bri. Il punto di Sanfelice di Monteforte

Il conflitto in Ucraina sta rischiando di spezzare definitivamente la rete di commerci che legava l’Occidente e l’Oriente, e il pericolo è che si creino due “semi-globalizzazioni” distinte per ciascuna area geopolitica mondiale, uno scenario che non piace nemmeno a Pechino. L’analisi dell’ammiraglio Ferdinando Sanfelice di Monteforte, esperto militare e docente di Studi strategici

La recente notizia della crescente penetrazione cinese nelle società portuali europee ha sollevato l’interesse delle opinioni pubbliche del continente e, di conseguenza, ha costretto i principali leader politici del continente a prendere posizione in merito.

Naturalmente, in linea con le posizioni del loro elettorato, alcuni si sono opposti, dicendosi preoccupati di perdere il controllo nazionale sulle infrastrutture portuali del Paese, altri, invece, hanno “benedetto” questa iniziativa.

Nessuno, però, ha finora inquadrato questa azione in un contesto più ampio. Come viene insegnato in Strategia, se priva di un accurato esame della situazione e di tutti i “fattori pertinenti”, ogni decisione rischia di rivelarsi controproducente.

Anzitutto, l’intensificarsi dell’interesse cinese per i porti europei appare l’indicazione di quanto Pechino sia preoccupata per gli scossoni alla globalizzazione che la guerra russo-ucraina sta provocando, e di conseguenza di quanto tema la fine della Belt and road initiative (Bri), altrimenti detta “Nuova Via della Seta”, il colossale progetto cinese per incrementare l’interscambio internazionale, costruendo infrastrutture terrestri e marittime idonee al rapido smistamento delle merci dal porto di partenza a quello di arrivo finale. Questa preoccupazione è condivisa – è giusto ammetterlo – da alcuni tra i nostri governanti, che invocano, nella loro quasi totalità, il ritorno della pace tra le due nazioni, il più presto possibile, temendo che ciò non avverrà in tempi brevi, trattandosi del regolamento di conti in sospeso da secoli.

Il sempre maggiore numero di sanzioni economiche che l’Occidente ha decretato e continua a stabilire nei confronti di Mosca sta, infatti, provocando la fine di quell’interdipendenza che alcuni Paesi europei, tra i quali l’Italia, avevano perseguito per decenni, cercando di inserire la Russia nella rete commerciale europea, facendole assorbire, di riflesso, la nostra cultura e i nostri valori.

Certo, le sanzioni sono state decise per convincere la Russia a rinunciare alle proprie mire sull’Ucraina. Il problema che diventa di mese in mese sempre più immanente, con il continuare della guerra, è che la Russia non intende ritirarsi, ponendo fine alla sua “operazione speciale”, e anche dopo un’eventuale fine del conflitto – non si sa tra quanto tempo – i rapporti tra Mosca e le capitali europee saranno a lungo caratterizzati dagli strascichi velenosi del conflitto.

Quindi, poiché il commercio non consente solo alle merci prodotte da un Paese di raggiungerne un altro, verrà meno un potente fattore di integrazione. La circolazione dei beni ha, infatti, un effetto moltiplicativo nel creare contatti tra Paesi anche lontani tra loro.

Come diceva Braudel, “una grande civiltà non può vivere senza un’ampia circolazione. Beni, mezzi, tecniche, tutto a poco a poco transiterà attraverso le rotte marittime” (F. Baudel, Il Mediterraneo, ed. Bompiani 1987, pag. 57). Non ci vuole, di conseguenza, molta fantasia per immaginare che la fine dei rapporti economici, e non solo, tra l’Occidente e la Russia porterà alla creazione di due distinte sfere commerciali, la prima che includerà, in prevalenza, l’Europa e i continenti africano e americano, e la seconda che vedrà Russia e Cina dominare il commercio asiatico, grazie a rapporti commerciali sempre più stretti tra loro, con l’India che potrebbe ambire a fare il terzo incomodo. Gli unici amici dell’Occidente finirebbero per essere il Giappone e la Corea del Sud, oltre a qualche Paese minore dell’Asean, a meno che noi non curiamo i legami con la Cina.

Le notizie sull’attivismo cinese per la creazione di “teste di ponte” nei porti europei sembra, infatti, confermare che anche a Pechino questo scenario di due semi-sfere commerciali sempre più lontane tra loro non vada per niente bene, e che la Cina voglia salvare ciò che resta della Belt and road initiative, mantenendo un elevato livello di interdipendenza con noi europei.

A questo punto dobbiamo prendere una decisione. Siamo un Paese che prospera grazie al commercio internazionale. Se vogliamo mantenere rapporti commerciali, e non solo, con la Cina, dobbiamo agevolarne l’ingresso, con le dovute cautele, nei nostri porti. Altrimenti, se possiamo permetterci di limitare i nostri commerci nell’ambito del mondo occidentale, possiamo escludere Pechino dai nostri porti. Infatti, ogni decisione politica, come insegnano da tempo, è la scelta del male minore, unita a una serie di dolorose rinunce, e l’accettazione dei relativi inconvenienti.

La questione, in essenza, è se lo scenario di un mondo diviso in due semi-globalizzazioni opposte tra loro sia da ritenere praticabile o meno, e quindi accettabile per i nostri interessi vitali, al di là degli orientamenti politici del nostro governo. In caso negativo, pur tappandoci il naso, dovremo agire da ponte tra mondi diversi, come abbiamo fatto in quasi tutto il periodo repubblicano, con il risultato di un benessere magari non elevatissimo, ma che non avevamo mai visto prima.

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