Due i temi da analizzare: la separazione tra assistenza e previdenza (essenziale perché funzioni un sistema contributivo) e l’operatività della riforma del 1995. La prima è stata oggetto di analisi di vari rapporti del Centro Studi Itinerari Previdenziali e di una relazione pubblicata dal ministero del Lavoro a fine 2021. Sulla seconda uno studio comparato è stato diramato in questi giorni dalla Fondazione Open Polis
Saggiamente il governo ha deciso di intervenire in materia previdenziale solo per il minimo essenziale nella legge di Bilancio che si approccia a varare la settimana prossima (ossia adeguamenti per permettere ai pensionati e alle loro famiglie di fare fronte all’ondata di inflazione), mentre una vera riforma del comparto è programmata per l’anno 2023. Alcune idee interessanti sono venute dal ministro dell’Economia e delle Finanze (quali restare al lavoro dopo l’età della pensione, non dover versare i contributi dopo quella data e, quindi, non computare quegli anni quando si va effettivamente in quiescenza) ma richiedono approfondimento.
Due temi vanno analizzati con cura: la separazione tra assistenza e previdenza (essenziale perché funzioni un sistema contributivo) e l’operatività della riforma del 1995 (modificata più volte). La prima è stata oggetto di analisi di vari rapporti del Centro Studi Itinerari Previdenziali e di una relazione pubblicata dal ministero del Lavoro a fine 2021 ed analizzata su questa testata lo scorso gennaio. Sulla seconda uno studio comparato è stato diramato in questi giorni dalla Fondazione Open Polis.
La relazione della Commissione del 2021 conclude che previdenza ed assistenza non sono scorporabili, almeno per il momento: integrazioni al minimo degli assegni pensionistici, pensione e reddito di cittadinanza, assegni sociali e 14esima dei pensionati devono rimanere collocati all’interno del grande fiume della spesa previdenziale. Il messaggio sembra rivolto soprattutto ai sindacati, che da tempo invocano questa “separazione” e che, non a caso, avevano inserito questo tema tra le priorità del confronto con il governo sulla riforma delle pensioni da far scattare eventualmente nel 2023. Per la Commissione non appare praticabile una separazione netta della previdenza dall’assistenza anche a causa della natura spesso ibrida della prestazione che rende complicata una distinzione delle fonti di finanziamento. Integrazione al minimo, 14esima, maggiorazioni sociali ma anche Tfr, assegno sociale di disoccupazione, reddito di cittadinanza vengono tutti considerati interventi, appunto, di natura ibrida che cumulano caratteri propri tanto della assistenza che della previdenza.
Una conclusione quanto meno bizzarra. Negli anni Ottanta non solo un’analoga Commissione concluse che la separazione tra assistenza e previdenza era fattibile e doverosa ma venne varata un’apposita legge perché venisse attuata. Le legge è stata più o meno applicata ma – come sottolineano i rapporti annuali del centro studi Itinerari Previdenziali – i dati che forniamo ogni anno a Commissione europea e Ocse mischiano assistenza e previdenza con il risultato che nelle comparazioni internazionali l’Italia sembra spendere per previdenza molto più di quanto effettivamente fa. Comunque la relazione della Commissione ha avuto poca attenzione sia dalle istituzioni sia dalla stampa. Tanto le sue conclusioni erano contraria al buon senso: ad esempio, come si fa a considerare “previdenza” varie forme di prestazioni (quali integrazioni al minimo, baby pensioni non finanziate da contributi)?
Molto utile invece lo studio della Fondazione Open Polis. Parte da un assunto notissimo: in Europa la popolazione anziana è in aumento. Quasi 44 milioni di persone di 75 anni o più nel 2020, con un aumento pari circa al 15% rispetto al 2012, quando erano poco più di 38 milioni. Conseguentemente aumenterà anche l’indice di dipendenza degli anziani, un indicatore che esprime il rapporto tra la popolazione di età superiore ai 65 anni e quella in età lavorativa.
Come riporta l’Ocse, tale rapporto dipende sia dalla fertilità e dalla mortalità della popolazione che dai pattern migratori. Nel 2020, sempre secondo l’Ocse, il rapporto in Ue si attesta al 32,3% (in Italia al 39,5%), ma è destinato a raggiungere il 55,4% nel 2050 – in Italia addirittura il 74,4%. Un’indicazione che nonostante i suoi difetti, relativamente a gran parte del resto dei Paesi europei il sistema sanitario italiano assicura una lunga aspettativa di vita. Tuttavia, nell’ultimo decennio inoltre la quota di cittadini di età superiore ai 65 anni a rischio povertà si è gradualmente incrementata, passando dal 13,2% nel 2014 fino al 17,1% nel 2020 (16,8% nel 2021). Ancora più elevata nel caso di chi ha più di 75 anni 18,2% degli over 75 in Ue è a rischio povertà (2021). Ciò indica che misure assistenziali dovrebbero essere dirette soprattutto verso gli anziani: il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, ad esempio, dovrebbe essere convogliato soprattutto a coloro che dopo i 60 anni hanno serie difficoltà a trovare lavoro.
Il 10,3% del Pil è speso in pensioni di vecchiaia in Ue (2020). Al di sopra della media si trovano Grecia, Francia, Italia, Austria, Portogallo e Finlandia. La Grecia in particolare registra la quota più elevata: 14,5%. In Italia il dato si attesta all’11,8%. Mentre l’ultima in questo senso è l’Irlanda, con il 4% ma, come stima l’Ocse segnerà un progressivo aumento. Sei Paesi Ue spendono più di 4mila euro pro capite per le pensioni. I dati si riferiscono alla spesa pro capite, in euro a prezzi costanti (con il 2010 come anno di riferimento). Non sono disponibili i dati di Grecia, Paesi Bassi e Romania relativi al 2020.
Danimarca, Lussemburgo, Finlandia, Austria, Svezia e Francia hanno speso più di 4mila euro pro capite a questo scopo nel 2020. Agli ultimi posti si trovano invece alcuni Stati dell’Europa orientale, in particolare la Bulgaria con 459 euro pro capite. Di tutte le tipologie di pensioni quella per la vecchiaia è inoltre quella che ha registrato l’aumento più marcato negli ultimi anni. In Lussemburgo, ad esempio, la spesa è più che raddoppiata in 10 anni. L’aspetto più interessante, ai fini di una riforma della previdenza in Italia è la variazione nella spesa per pensioni, nei Paesi Ue, tra 2010 e 2020.
I dati di Open Polis sono eloquenti: il Lussemburgo è l’unico Paese europeo in cui la spesa pubblica per le pensioni di vecchiaia è più che raddoppiata in un decennio (+117%), passando da 1,6 miliardi di euro nel 2010 a 3,7 nel 2020. Altri aumenti marcati sono stati registrati in Polonia (81%), Slovenia (76%) e Finlandia (71%). Mentre quote inferiori al 30% sono state riportate in Ungheria (25%) e Croazia (22%).
In Italia si è passati da meno di 150 miliardi nel 2010 a circa 195 nel 2020 – un aumento pari al 30,9% in 10 anni.
Il Lussemburgo è l’unico Paese europeo in cui la spesa pubblica per le pensioni di vecchiaia è più che raddoppiata in un decennio (+117%), passando da 1,6 miliardi di euro nel 2010 a 3,7 nel 2020. Altri aumenti marcati sono stati registrati in Polonia (81%), Slovenia (76%) e Finlandia (71%). Mentre quote inferiori al 30% sono state riportate in Ungheria (25%) e Croazia (22%). In Italia si è passati da meno di 150 miliardi nel 2010 a circa 195 nel 2020 – un aumento pari al 30,9% in 10 anni. Ciò vuol dire che, tutto sommato, gli aspetti di fondo della “riforma Dini”, nonostante il lungo periodo di transizione previsto, nel 1995 funzionano e stanno comportando un rallentamento della crescita della spesa previdenziale più marcato che nel resto d’Europa.
Quindi ad essi occorre restare agganciati, separando assistenza a previdenza.