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Come ha fatto il Qatar a diventare una (vera) potenza del calcio

Di Gianluca Mazzini

Pubblichiamo un estratto del libro “Qatar 2022. Un mistero mondiale” (Lupetti editore) di Gianluca Mazzini, vicedirettore di NewsMediaset, per anni inviato in Medio Oriente. Per capire come mai la Cina, con investimenti strabilianti e 1,4 miliardi di abitanti, non è riuscita a costruire una nazionale credibile. Mentre il piccolo Qatar (300mila cittadini) ha vinto la coppa d’Asia e ora debutterà nel suo primo mondiale

Premessa: nel 2011, un anno prima di diventare segretario del Partito Comunista e poi presidente della Repubblica Popolare cinese, Xi Jinping disse di avere tre sogni: che la Cina si qualificasse per la Coppa del Mondo, che ospitasse un torneo e che alla fine vincesse il campionato del mondo. Da lì si lanciò in una campagna per trasformare il suo Paese in una superpotenza del calcio, imponendolo in tutte le scuole come attività curriculare, costruendo decine di migliaia di campi, ingaggiando Marcello Lippi e decine di allenatori e calciatori occidentali, permettendo ai grandi gruppi nazionali (vedi Suning con l’Inter) di comprare club stranieri.

Avanti veloce fino a marzo 2022: dopo aver perso con il Giappone per 0-2 e con il Vietnam per 1-3, la nazionale di calcio cinese è stata sconfitta dall’Oman per 0-2, chiudendo la sua corsa verso la fase finale del mondiale che inizia domani in Qatar. Nel frattempo, l’ordine ai paperoni cinesi che si erano avventurati all’estero è stato di tornare in patria, anche perché la popolazione cinese non amava vedere centinaia di milioni (perlopiù prestati dalle banche nazionali) finire nelle tasche di ricchi calciatori e procuratori stranieri.

Certo, il calcio in questi dieci anni ha fatto passi (obbligati) da gigante. Eppure resta ancora meno popolare del badminton, del ping pong, del basket. Finché il Paese non riuscirà a portare un buon risultato a livello internazionale, sarà difficile “creare in laboratorio” una passione come quella per il pallone.

C’è invece un caso diverso, e riuscito, di ingegneria calcistica. Quello del Qatar. Un Paese che non ha 1,4 miliardi di abitanti, ma circa 2,7 milioni, quanto Roma. Il numero di qatarini doc, che non è rivelato dalle autorità, si aggira intorno ai 300mila. Eppure è riuscito a vincere la Coppa d’Asia nel 2019, in una finale contro il ben più blasonato Giappone. Come ha fatto? Lo racconta Gianluca Mazzini nel suo libro “Qatar 2022. Un mistero mondiale“, pubblicato da Lupetti editore. Noi di Formiche.net ne abbiamo selezionato un estratto, proprio quello in cui racconta il percorso di costruzione, da zero, di una nazionale. Che domani farà il suo esordio mondiale contro l’Ecuador, dopo 6 mesi ininterrotti di ritiro (avete letto bene).

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Capitolo sesto

L’Academy e la fabbrica dei campioni

Il Mondiale di calcio del 2022 che si giocherà a Doha sarà solo il punto di arrivo di un progetto lanciato alla fine degli anni Novanta. E se non si capisce il rapporto “ossessivo” tra Emirato e sport non si può comprendere la decisione dalla Fifa. Nel 2010 il Qatar aveva presentato, secondo il NYT “la peggiore candidatura” in vista dei Mondiali. Di tutte le candidature arrivate alla Fifa per i Mondiali 2018 e 2022 quella del Qatar era l’unica considerata ad alto rischio. Per varie ragioni: climatiche, strutturali, politiche e culturali. In Qatar le temperature raggiungono e superano nella stagione estiva i 40 gradi. All’epoca dell’assegnazione non esistevano stadi adeguati nel paese. L’Emirato, poi, è governato dalla legge islamica, non esistono partiti politici e sorge in una delle ragioni più instabili del pianeta. Tutte queste perplessità sono state fugate dalla Fifa quando ha assegnato al Qatar la prima Coppa del Mondo in Medio Oriente. Secondo i dirigenti del calcio mondiale questa scelta porterà stabilità, sicurezza e benefici economico-turistici a tutta la regione.

Ma l’equazione “Qatar uguale sport” che in ultima istanza ha introdotto prima e realizzato poi il sogno della Coppa del Mondo arriva da lontano. Può sorprendere sapere che l’uomo più veloce d’Asia si chiami Femi Seun Ogunode. È africano ma gareggia per il Qatar. Nato in Nigeria a Ondo City nel 1991 ha cambiato cittadinanza nel 2008. Alto 1,75 cm per 72 kg di peso è detentore dei record asiatici dei cento metri piani (9 secondi e 91 centesimi) e dei duecento (19 secondi e 97 centesimi), entrambi stabiliti nel 2015. Nel suo “nuovo” continente non ha rivali. Il campione d’Asia oltre a essere velocissimo in pista è stato molto rapido nel cambiare il passaporto diventando qatarino.

Lo ha fatto, dichiarandolo pubblicamente, per denaro. “Quando venni contattato via mail dal Qatar ho accettato la loro proposta ma dicendo subito che non avevo i soldi per trasferirmi a Doha. Mi risposero di spedire il passaporto e mi hanno pagato il viaggio. Il resto è storia”. Dal punto di vista sportivo l’Emirato funziona così: esporta petrolio e importa campioni. Di qualunque disciplina. Dall’atletica al beach volley, dal pugilato al ping pong fino all’hockey su ghiaccio (esiste una federazione riconosciuta a livello mondiale e un campionato che si gioca a Doha con giocatori che arrivano anche dalla NHL per brevi periodi). Obiettivo vincere partite e tornei, conquistare medaglie, battere record. Insomma, ritagliarsi uno spazio sempre maggiore nella vetrina dello sport mondiale. Dal 2006 in particolare con l’inaugurazione dei Giochi asiatici a Doha, il Paese ha acquistato molti dei principali eventi internazionali: dalla boxe ai motori, dal golf al ciclismo. Questo perché il potere contrattuale del Qatar tende all’infinito. Per vincere, e per farlo subito, c’era una sola strada (fino a ieri): naturalizzare campioni già affermati a livello internazionale.

Il primo esperimento in questo senso venne fatto alle Olimpiadi di Sydney 2000. All’epoca il Comitato olimpico del Qatar investì un milione di dollari per comprare in blocco otto elementi della squadra bulgara di sollevamento pesi. Tra questi il campione mondiale in carica Petar Tanev che aveva vinto il titolo nel 1999. Il suo vecchio nome è stato sostituito con quello di Badr Salem Nayef. Tutto inutile. Un caso di doping scoppiato nella vera nazionale bulgara coinvolse anche gli atleti passati al Qatar che furono costretti a ritirarsi e così gli emiri si aggiudicarono solo una medaglia di bronzo. Un magro bottino addolcito in seguito da qualche mondiale di categoria. Altro esempio. Nel 2003 la federazione calcistica del Qatar cercò una scorciatoia per rendere competitiva la nazionale ingaggiando direttamente tre giocatori brasiliani che militavano nel campionato tedesco ed erano stati ignorati dalla Selecao (Ailton, Leandro e Dede). A bloccare tutto, con i calciatori già pronti a firmare assegni milionari, fu la Fifa. Ma il caso più eclatante di shopping sportivo risale al 2015 quando si disputarono a Doha i Mondiali di pallamano. La squadra di casa aveva in rosa 13 giocatori stranieri su 17, ma nessuno dei quattro qatarini ha mai giocato. A scendere in campo furono solo i giocatori naturalizzati.

Tra loro francesi, egiziani, spagnoli e cubani reclutati grazie alle maglie larghe della Federazione internazionale che permette a un giocatore di cambiare nazionale dopo tre anni di militanza nella propria. Nella finale, la Francia sconfisse (28 a 25) i padroni di casa e questa vittoria fu salutata con soddisfazione da tutte le squadre eliminate dal Qatar. Nonostante le polemiche, l’anno successivo, alle Olimpiadi di Rio 2016, il Qatar presentò ancora una nazionale di pallamano con 11 stranieri (su 14) ma fu eliminata ancora una volta dalla Francia questa volta senza troppe difficoltà (35 a 20). A fine partita il capitano della squadra Valentin Porte ha così commentato l’esito della sfida: “Noi giochiamo per amore dello sport, loro per i soldi. Questa la differenza”. In totale, il Qatar è riuscito a mandare in Brasile 39 atleti, il numero più alto della sua storia olimpica.

Quattro anni prima a Londra la squadra qatarina aveva potuto schierare solo 12 elementi. Altra novità di Rio: tra i 39 atleti presentati c’erano anche due donne: la velocista Dalah Mesfer al Harith e la nuotatrice Nada Arakji. Nel complesso, i 23 atleti provenivano da 17 Paesi diversi, soprattutto africani. Tra loro figuravano maratoneti del Sudan, pugili tedeschi, giocatori di beach volley brasiliani, campioni di pallamano slavi. Tutti ingaggiati per provare a vincere qualcosa in nome dell’Emirato. Ironia della sorte, l’unica medaglia olimpica per il Qatar a Rio l’ha conquistata nel salto in alto un autentico cittadino qatarino: Mutaz Essa Barshim che ha vinto un prestigiosissimo argento. Per Barshim si tratta della seconda medaglia olimpica, visto che quattro anni prima si era già aggiudicato un bronzo. L’arruolamento di campioni, per quanto discutibile, non è una prassi vietata.

Le norme del Comitato olimpico (CIO) richiedono solo che un atleta che ha già rappresentato una nazione in una gara internazionale stia fermo tre anni prima di rappresentarne un’altra. Ogni quattro anni molti paesi sfruttano questa opportunità per aumentare la qualità delle rispettive squadre olimpiche. A Rio ci sono state decine di atleti nati, cresciuti e allenatisi negli Stati Uniti che hanno gareggiato sotto altre bandiere. Ma se per le altre nazioni è importante poter schierare campioni “acquisiti” per Doha avere campioni da esibire al mondo è fondamentale. È così importante che i passaporti vengono rilasciati con grande facilità a chi deve essere naturalizzato per meriti sportivi. L’opposto di quanto avviene nella prassi.

Lo Stato arabo è, a livello internazionale, uno di quelli dove risulta più difficile ottenere la cittadinanza. Si pensi che per la naturalizzazione servono 20-25 anni (15 per gli arabi) e lo ius sanguis vale solo da parte di padre. Chi ha madre qatarina e padre straniero non è considerato un cittadino dell’Emirato. Inoltre il doppio passaporto è vietato. Ma per trovare campioni in modo più strutturale e per non dover dipendere all’infinito da questo sempre più criticato import-export di dubbio gusto, il Qatar, ha deciso di iniziare un nuovo percorso e cambiare del tutto filosofia. Una strada chiamata Aspire. L’Aspire Academy a Doha nasce con il decreto dell’Emiro N° 16 del 2004, come un’agenzia indipendente che, però, risponde direttamente a Hamad Bin Khalifa al-Thani. Fin dalla sua nascita Aspire ha lo scopo di provvedere all’educazione sportiva degli studenti che hanno talento nei vari sport.

L’obiettivo è “creare” atleti qatarini ben preparati a livello sportivo ma anche educativo, per portare un contributo di prestigio al Qatar nelle manifestazioni sportive internazionali. Per ottenere questi traguardi, l’Accademia sviluppa progetti elaborati per il presente e per il futuro che si avvalgono del contributo di insegnanti, allenatori, medici sportivi, ricercatori di provata professionalità internazionale. “Per questo diventa importante in queste organizzazioni educare i giovani atleti a livello mentale e non solo atletico” recita il decreto. L’obiettivo governativo per l’Academy è creare, entro il 2030, “un capitale umano e sportivo che possa arricchire tutta la società qatarina”. Di strada ne è stata fatta parecchia ma molto resta ancora da fare.

Nel 2004, erano appena 31 gli atleti (soprattutto calciatori) coinvolti nel progetto. Tutti adolescenti con un’età compresa tra i 12 e i 18 anni. Dieci anni dopo gli studenti-atleti sono diventati 230 a cui bisogna aggiungere un’ottantina di ragazzi che frequentano solo part-time l’Accademia. Adesso l’Aspire lavora con 6.000 ragazzini (6-12 anni) attraverso un programma di “identificazione dei talenti” che coinvolge tutto il Paese. In questo modo si riesce ad avviare ogni anno allo sport professionistico decine di atleti con un’età compresa tra i 18 e i 24 anni. E se il calcio resta lo sport più gettonato ci sono altre discipline considerate centrali nel progetto come: atletica, squash, tennis tavolo, fioretto e tiro. Inoltre per incrementare la formazione all’interno di un maggior numero di sport olimpici l’Accademia collabora con le Federazioni del Qatar di Golf, Ginnastica, Nuoto, Tennis e Pallamano. L’Aspire non “produce” solo campioni. Nel 2016 l’Accademia ha “laureato” anche sei arbitri di calcio in grado di dirigere a livello internazionale. Qui lo sport è una mission a 360°, di respiro internazionale. Per esempio gli allenatori e i medici sportivi arrivano da almeno 25 nazioni. Sotto la loro supervisione sono oltre 250 gli studenti-atleti che si sono diplomati. Il 70% di loro ha poi proseguito gli studi a livello universitario mentre il 28% ha intrapreso un’attività professionale nel mondo sportivo come atleta o altro.

Calciatori da sogno

Per il Qatar, e quindi anche per l’Academy, è comunque il calcio a rivestire un ruolo centrale. Per questo è stata fondata la Aspire Football Dreams (AFD). Si tratta dell’iniziativa più importante a livello mondiale di ricerca di talenti in questo sport. Oltre due milioni e mezzo di giovani talenti calcistici sono stati visionati e valutati in Asia, Africa e America Latina fin dal 2007 quando è nato questo progetto che ha coinvolto 6.000 volontari all’opera in 800 campi di calcio in tutto il mondo. Questo laboratorio calcistico unico, dove sono stati raccolti e naturalizzati giovani talenti da mezzo mondo, è stato affidato a un allenatore speciale: lo spagnolo Josep Colomer, l’uomo che scoprì Leo Messi. Colomer ha diretto per anni La Masia, il vivaio del Barcellona Calcio.

Fu lui per primo a “vedere” il talento di un ragazzino argentino di 11 anni con problemi di crescita ma una grinta straordinaria. Assistente dell’allenatore Luiz Felipe Scolari al Mondiale nippo-coreano vinto dal Brasile nel 2007 Colomer ha abbracciato con entusiasmo il progetto calcistico-formativo voluto dall’emiro Hamad al-Thani. Ne è nata una sorta di joint venture catalano-qatarina. I soldi arrivavano da Doha, il know how commerciale dalla Global Sport Marketing dell’ex presidente del Barca Sandro Rossel (con cui Josep è stato coinvolto in una vicenda giudiziaria) ma anche dalla Nike. La parte più importante ovvero l’aspetto tecnico-organizzativo è stato affidato a Colomer. Obiettivo del progetto Football Dreams era quello di allevare una generazione calcistica qatarina che ha il dovere diventare competitiva entro il 2022. Il lavoro svolto dallo scout spagnolo è stato enorme ed i dati di questo lavoro sono stati elencati da Sebastian Abbot nel libro Fuori casa (Luiss Edizioni).

In meno di dieci anni sono stati vagliati i profili di milioni di giovani calciatori africani. Colomer ha puntato subito sull’Africa perché “lì c’era tutto quello che gli serviva” e che in Qatar non poteva trovare: un numero sterminato di giovani appassionati di calcio e pronti a tutto pur di emergere. Il problema era raggiungerli e individuarli. Per questo Colomer ha viaggiato per anni in tutto il continente africano per le selezioni. Un lavoro enorme, dispendioso e complicato. Gli scout del calcio hanno sempre un compito complesso: devono vagliare una serie di indicatori in continua evoluzione: agilità, velocità, resistenza, potenza, dribbling, colpi di testa, tackle e intelligenza tattica. Per questo molti club hanno stabilito una serie di criteri formali per individuare e valutare i giovani calciatori. Il più famoso è il TIBS (technique, insight, personality, speed, ovvero tecnica, intuito, personalità e velocità) ma ce ne sono molti altri come il TABS (tecnica, attitudine, equilibrio e velocità) e il SUBS (velocità, comprensione personalità e abilità).

Ma pur tenendo conto di tutti questi criteri i risultati non sono sempre esaltanti. James Bunce, ex direttore di scienza sportiva della Premier League inglese ha dichiarato al quotidiano Guardian che “solo lo 0,5% dei ragazzi che entrano in accademia della Premier a livello under 19 arriva in prima squadra”. Significa un ragazzo su duecento. Nel suo lavoro, inizialmente, Colomer era piuttosto ottimista ritenendo che la metà della trentina dei ragazzi selezionati annualmente nei vari Paesi africani, sarebbero diventati professionisti. Una percentuale di cinquanta volte superiore a quanto avviene nelle Accademie inglesi. Il suo ragionamento era semplice: se il Barcellona ha avuto successo selezionando giocatori in una piccola regione come la Catalogna, con Football Dreamers la selezione di giocatori di un intero continente affamato di calcio era “condannata” al successo. Ma le cose non sono andate come sognato. Nessuno in Qatar aveva infatti considerato l’impatto sociale e culturale del progetto. Muovere adolescenti da un continente all’altro modificando stili di vita, alimentazione e cultura è stato per troppi un ostacolo insuperabile. Già essere proiettati da poveri villaggi dell’Africa profonda in una città iper-moderna come Doha è risultato (per molti) più scioccante che entusiasmante.

L’Accademia nel deserto

Vista da fuori l’Aspire Academy ha l’aspetto di una gigantesca stazione spaziale. L’enorme cupola climatizzata è considerata la più grande del mondo. Larga come un lato della Torre Eiffel, ha richiesto per costruirla l’impiego di 7.000 tonnellate di acciaio (più dell’obbrobrio da meccano anabolizzato simbolo dell’Esposizione universale del 1889). Si estende per 290 mila metri quadri, sui quali trovano posto una piscina olimpionica, un campo da calcio, una pista di atletica, undici campi da tennis e un’infinità di altri impianti sportivi. Si parla di un costo vicino a 1,5 miliardi di dollari. Al complesso iniziale si sono aggiunti negli anni due hotel a cinque stelle, un ospedale di prim’ordine specializzato in Scienze dello sport, un centro commerciale di lusso, sei campi di calcio e uno stadio da 40mila posti. Tutt’intorno giardini e palme fanno di Aspire una sorta di oasi nel deserto di sabbia, strade e cemento che compongono il paesaggio di Doha. In questo scenario da favola sono stati accolti i ragazzi africani.

Il primo “arrivo” è stato registrato nell’autunno del 2005. Negli anni, poi, l’Aeroporto di Doha ha visto sbarcare altre decine di adolescenti provenienti da Ghana, Senegal, Nigeria, Camerun Sud Africa, Kenya, Marocco. Tutti con lo sguardo incredulo nel vedere una città per loro ai limiti della fantascienza. Quelli che arrivavano a Doha erano tutti atleti che avevano già superato vari provini. Ma Colomer e i suoi scout dovevano individuare solo i migliori. Ai prescelti sarebbe stata offerta una borsa di studio. Un percorso provato anche in passato con giovani talenti brasiliani che però avevano tutti declinato l’offerta quando avevano capito che non avrebbero potuto frequentare ragazze. Nell’Emirato, infatti, il sesso fuori dal matrimonio è illegale e pesantemente sanzionato. Ma anche per i giovani africani c’è stato un “impatto sociale” che Colomer, così come i dirigenti dell’Aspire, non avevano calcolato.

Tutti questi ragazzi provenienti da Paesi africani non avevano mai posseduto un passaporto perché la maggior parte di loro non era mai espatriata. Anzi, quasi tutti avevano vissuto esclusivamente nel proprio villaggi o nella propria città. Così per gli aspiranti calciatori anche le cose più banali diventavano problematiche. Ad esempio, il fatto che nell’Accademia ci fosse un buffet sempre aperto è stata una rivelazione scioccante. In Africa non tutti i ragazzi avevano la possibilità di mangiare quotidianamente e quell’abbondanza ha creato problemi alimentari e di peso. Anche gli alberghi erano un luogo sconosciuto. Pure le visite mediche alle quali sono stati sottoposti i calciatori hanno causato problemi. In alcuni casi i medici hanno individuato patologie non compatibili con la pratica sportiva e molti ragazzi sono stati rimandati a casa. C’era poi il problema dell’età, non per tutti certificata da documenti ufficiali.

Mentre il progetto procedeva tra provini e selezioni cominciavano a crescere anche le polemiche sull’operato di Colomer e più in generale sul progetto Football Dreams. Già nel 2007 il camerunense Jean Claude Mbvoumin, ex calciatore professionista e a capo dell’organizzazione no profit, Foot Solidaire con sede a Parigi, metteva nel mirino il progetto qatarino. Foot Solidaire combatte il traffico illecito di calciatori minorenni e si era mobilitata alla notizia che Aspire reclutava ragazzini tredicenni su scala industriale. Mbvoumin chiedeva che anche l’Accademia di Colomer si adattasse alle norme Fifa che impediscono il trasferimenti di calciatori prima dei 18 anni. Aspire ha dichiarato che non doveva rispettare quelle regole perché non era un club professionista e i ragazzi non giocavano in un campionato ufficiale. Non soddisfatta delle risposte, Foot Solidaire si è appellata alla Fifa perché bloccasse il programma, ma all’epoca l’organizzazione si era rifiutata di rilasciare commenti ufficiali. Qualche mese più tardi, però, rispondendo a una richiesta del Parlamento europeo il presidente Blatter aveva espresso dubbi sul progetto affermando che “l’istituzione di reti di reclutamento in diversi Paesi africani rivela cosa sia davvero Aspire”.

Il timore era che il vero obiettivo di Football Dreams fosse solo quello di migliorare il rendimento della nazionale qatarina reclutando talenti che sarebbero stati poi naturalizzati in Qatar, come già successo in passato. Timore che si è accresciuto dopo l’assegnazione dei Mondiali del 2022. Nel 2008, però, Blatter cambiava idea. Invitato dall’emiro Hamad, il presidente della Fifa, dopo aver visitato l’Aspire, dichiarava alla stampa: “Questa visita mi ha dato l’opportunità di conoscere in prima persona il progetto Aspire-Africa e devo dire che dopo aver capito come funziona, sono molto più tranquillo e offro tutto il mio sostegno al progetto”. Una totale inversione di rotta. Parallelamente alle polemiche continuava il via vai dei giovani talenti sull’asse Africa-Qatar. Nei fatti, però, erano molti di più quelli che tornavano in patria per i più svariati motivi rispetto a quelli che rimanevano a Doha. L’esperimento richiedeva anche più fondi del previsto e lo stesso Colomer aveva dovuto ricorrere direttamente all’emiro per sostenere il progetto, ottenendo così la creazione di un’accademia Aspire direttamente in Africa. Un’esperienza che non avrà lunga durata.

Missione Europa

Un altro problema inizialmente sottovalutato dagli scout era l’ambizione dei giovani calciatori africani. Questi talenti percepivano l’Aspire come un trampolino di lancio verso una carriera nel calcio europeo. Non avevano, infatti, alcun interesse nel cercare di migliorare il rendimento di squadre qatarine o della nazionale del Qatar. Dunque come motivare questi giocatori? Una soluzione venne trovata puntando all’acquisto di alcune società professionistiche in Europa, dove parcheggiare e testare i calciatori più promettenti. Il primo club a essere acquistato è stato il KAS Eupen nel 2012. Una squadra quasi sconosciuta militante nella seconda serie belga. Nulla a che vedere con gli acquisti da parte di sceicchi e oligarchi russi di brand come Manchester City, Chelsea, PSG. Non era un gioiello per gli standard convenzionavi ma era esattamente quello che cercava Colomer. Il talent scout spagnolo era, infatti, alla ricerca di un club che potesse facilmente controllare alimentandolo con il flusso continuo di calciatori africani.

Questo non era possibile in molte nazioni europee dove esistevano norme molto restrittive sul numero di calciatori non europei da impiegare. Ad Aspire non restavano che due opzioni: il Portogallo e il Belgio. A questo punto la scelta era scontata. Nessun calciatore parlava portoghese mentre in Belgio la lingua più diffusa era il francese. Molti giocati dell’Accademia arrivavano da Paesi africani francofoni. Inoltre, la federazione calcio belga era l’unica che permetteva di schierare il numero più alto di extracomunitari in un campionato europeo. Nella lista di titolari e riserve bastano solo sei belgi mentre tutti gli altri componenti della squadra possono essere stranieri. L’ideale per inserire calciatori provenienti dal Qatar e di origini africane. Per di più, il Belgio poi era un nazione a misura d’uomo. Un elemento importante viste le difficoltà di inserimento riscontrate a Doha.

C’era il timore che, una volta finiti gli allenamenti, i ragazzi potessero cacciarsi nei guai, per questo era necessario trovare una città piccola e molto vivibile. Eupen aveva solo 20mila abitanti. Insomma una tranquilla cittadina a sud del Belgio, vicino al confine tedesco. Il club era in bancarotta ma aveva potenzialità per crescere e i duemila tifosi che frequentavano lo stadio non avrebbero creato troppa pressione ai giocatori. L’arrivo degli emiri è stato fondamentale per salvare la situazione. Con “soli” quattro milioni di euro venne fatto l’affare. Insieme ai soldi sono arrivati un team di allenatori e alcuni giocatori africani. I tifosi locali si aspettavano tutt’altro, ovvero investimenti sul modello PSG. Invece hanno visto scendere in campo giocatori africani diciottenni, impauriti e straniti, che non avevano mai giocato una partita a livello professionistico.

Anche i supporters non compresero che cosa stesse succedendo e cominciarono una sorta di sciopero del tifo disertando lo stadio, anche perché la nuova dirigenza aveva cambiato i colori sociali delle maglie. Dai tradizionali rosso e giallo della città si era passati al bianco e blu dell’Aspire. Il fatto, poi, che dalla squadra fossero scomparsi i giocatori locali si rivelò un problema. I tifosi dopo le partite erano abituati ad andare a bere insieme ai loro beniamini. Non solo: i risultati tardavano ad arrivare. Era la prima volta che i ragazzi di Football Dreams giocavano gare di campionato con in palio punti per la classifica. E oltre agli avversari i nuovi giocatori dovevano anche fronteggiare i fischi e le contestazioni dei tifosi quando perdevano. Ad accrescere la pressione, rispetto ai tempi dell’Accademia, la consapevolezza dei ragazzi che se le prestazioni non fossero state all’altezza rischiavano di tornare a casa.

Per fronteggiare tutte queste difficoltà, previste e impreviste, Colomer faceva la spola tra Africa e Belgio. In questo modo cercava di sostenere con la sua presenza i ragazzi, e seguiva l’attività del club prendendo parte ai consigli di amministrazione. Lo scout catalano si era inoltre reso conto, tardivamente, che anche qui come in Qatar c’erano problemi di adattamento. Dopo qualche settimana passata in hotel i calciatori erano stati alloggiati in appartamenti. Questo comportava il fatto che dovevano essere autosufficienti facendo tutto da soli: dalla spesa al cucinare. Cosa che non erano abituati a fare neppure a Doha dove alloggiavano in Accademia. Si trattava di mansioni banali ma che per i ragazzi rappresentavano degli ostacoli. Se fare la spesa era complicato, cucinare si rivelava un’impresa. I ragazzi non avevano, nella maggioranza dei casi, la minima idea di cosa fossero gli elettrodomestici e spesso li confondevano… Per loro venne organizzato anche un corso di cucina con scarsi risultati.

Giocando nell’Eupen i giovani atleti ricevevano anche uno stipendio importante: 77mila euro a testa all’anno. Lo stipendio base stabilito per legge in Belgio per i calciatori non europei. Per i calciatori africani erano un mare di soldi. Questa nuova ricchezza ha creato non pochi problemi. Alcuni sperperavano i soldi in iPhone, orologi e abiti firmati, altri inviavano quasi tutto in Africa alle famiglie rimanendo spesso senza soldi. Immettere denaro in quantità in società tribali come quelle africane ha causato anche qui conseguenze inattese. Per molti ragazzi le richieste di denaro da parte delle famiglie e dei parenti erano incessanti e molti sono stati costretti a cambiare numeri di telefono per sottrarsi alla questua. Anche il clima non aiutò l’inserimento. Il loro arrivo coincise con uno degli inverni più rigidi degli ultimi anni, con neve e temperature glaciali da novembre a marzo.

Niente a che vedere con le temperature torride dell’Africa sub-sahariana o con il clima ideale creato dalla cupola termica a Doha. Per tutte queste ragioni la prima stagione dell’Eupen, targato Qatar, fu piuttosto deludente con poche vittorie e molte sconfitte. Per questo Colomer e soci decisero un radicale cambiamento dei componenti della squadra. Una dozzina di loro dovevano lasciare il club e trovare un’altra squadra europea o tornare in Africa. Anche se gli scout dell’Academy si sono impegnati per aiutare i ragazzi “tagliati”, davvero pochi sono riusciti a sistemarsi. Lasciato Football Dreams alcuni sono finiti a giocare in terza o quarta serie in Paesi come Lettonia o Estonia mentre la maggior parte è stata costretta a tornare in Africa e ricominciare da capo o lasciare il calcio. Il secondo campionato è partito con il piede giusto e dopo dieci partite la squadra era in testa alla classifica. I tifosi si erano gradualmente riavvicinati al club frequentando di nuovo lo stadio anche perché la squadra era tornata a vestire le antiche maglie giallorosse.

In quella stagione è riuscita ad arrivare ai playoff per la promozione perdendo però la partita decisiva. Solo dal terzo anno l’Eupen è riuscito a trovare una continuità di risultati e a salire in serie A, dove è sempre rimasta stabilmente, fungendo da bacino sperimentale per i giocatori provenienti dall’Aspire. Ma il progetto dava solo parzialmente i suoi frutti. Per le convocazioni della nazionale qatarina ai Mondiali del 2018 ben 16 giocatori su 28 erano stranieri naturalizzati ma la qualificazione non arrivò. Anche per questo l’Eupen non è un caso isolato. I dirigenti di Doha, negli anni a seguire, hanno fatto shopping anche in altri Paesi europei. In Spagna è stata acquistata la Cultural Leonesa (serie C) e in Austria il Lask Linz (serie B). Tutti con la stessa filosofia: dare spazio e mettere alla prova i talenti dell’Aspire. Nonostante tutto, il sogno di Football Dreams venne improvvisamente cancellato proprio mentre uno dei ragazzi di Colomer, Diawandou Diagne, veniva ingaggiato dal Barcellona.

Era il 2014. Due anni dopo il suo debutto al Nou Camp, Aspire ha deciso di interrompere il programma. Ufficialmente per motivi economici, complice un tracollo del prezzo del petrolio che aveva subito una flessione del 70% del suo valore. Ma ci sono anche altre ragioni, come l’inasprimento delle regole Fifa in termini di naturalizzazione dei calciatori e la mancanza di risultati adeguati allo sforzo (il Qatar figura oltre il 50° posto del ranking Fifa). Non è mai stato comunicato ufficialmente quanto sia costato il progetto curato da Colomer ma si ipotizzano duecento milioni di dollari di investimento. Una cifra non certo stratosferica per l’Emirato, ma che non aveva prodotto un ritorno sufficiente. L’obiettivo originario di Football Dreams era quello di costruire a Doha un movimento calcistico di livello internazionale. Un’idea parzialmente fallimentare anche se alcuni talenti per la nazionale in vista del 2022 sono stati effettivamente individuati. Anche il progetto umanitario era stato ambivalente. Aveva cambiato la vita di molti ragazzi ma in molti casi non era riuscito a concretizzare i loro sogni.

La maggior parte di loro (90%) non aveva sfruttato la possibilità di studiare e non si era diplomata. Il programma lasciava però in eredità ai Paesi dove avevano lavorato gli scout centinaia di migliaia di dollari in attrezzature calcistiche, così come migliaia di zanzariere con l’immagine di Messi. Cosa non trascurabile nel contesto africano. Lontano migliaia di chilometri da questa realtà Messi e compagni cominciavano invece a frequentare Doha con una certa regolarità. L’Academy durante l’inverno ha iniziato a ospitare i ritiri di diverse squadre europee, molti dei quali organizzati in contemporanea (vista la vastità del centro). Nel 2019 ben dieci club hanno svernato a Doha. Al Paris Saint Germain, quasi un padrone di casa, si sono aggiunti Bayern Monaco, PSV Eindhoven, Club Brugge, Eupen, Zenit San Pietroburgo, Lokomotiv Mosca, Rostov. I giocatori hanno potuto usufruire, insieme alle strutture di allenamento all’avanguardia, anche e soprattutto delle tecnologie del centro medico Aspetar, riconosciuto dalla Fifa come uno dei più evoluti al mondo.

(Photo by Ben Koorengevel on Unsplash)

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