“Per molto tempo l’Australia ha considerato la Cina un’opportunità, non una minaccia”, spiega il presidente dell’Australian Institute of International Affairs, già direttore dell’Office of National Assessments. “Eravamo un’eccezione. Ma le cose sono cambiate”
Allan Gyngell è presidente dell’Australian Institute of International Affairs, professore onorario all’Australian National University e membro del consiglio di amministrazione di China Matters. In passato è stato diplomatico e consigliere per la politica estera del primo ministro Paul Keating. Dal 2009 al 2013 è stato direttore generale dell’Office of National Assessments (diventato Office of National Assessments nel 2018), l’equivalente dell’italiano Dis, diretto dall’ambasciatrice Elisabetta Belloni.
Quali sono gli obiettivi cinesi in Australia?
Non credo che i cinesi vogliano esportare il loro sistema. Piuttosto, vogliono aumentare la loro influenza sul resto della regione, e in questo non sono diversi da qualsiasi grande potenza. Il problema è se cercano questa influenza attraverso i processi diplomatici di tutti i giorni o attraverso sotterfugi e metodi sovversivi. A volte è difficile distinguere. Alcuni in Australia considerano tutto ciò che i cinesi fanno come una prova molto preoccupante delle loro cattive ambizioni. Io non la vedo così. Per lo più, credo che i cinesi stiano facendo ciò che qualsiasi potenza fa nella sua diplomazia per influenzare e persuadere.
Qual è la percezione della Cina in Australia?
Se si dà a un australiano un foglio bianco chiedendogli di disegnare un sistema globale congeniale, ne viene fuori qualcosa che assomiglia esattamente al mondo dopo la Seconda guerra mondiale. Ovvero, un rapporto militare profondo e di fiducia con il Paese più potente del mondo, gli Stati Uniti. E relazioni economiche complementari con i Paesi dell’Asia settentrionale: prima il Giappone e poi la Cina.
Che differenze ci sono nei rapporti con la Cina di Australia ed Europa?
Le relazioni dell’Australia con la Cina sono molto più profonde di quelle dell’Europa, e i nostri interessi sono diversi. Questo mese celebriamo il 50° anniversario delle relazioni diplomatiche. Per l’Australia i rapporti economici con la Cina sono complementari, non competitivi come lo sono con i Paesi industriali europei, gli Stati Uniti e il Giappone. Ancora oggi, il volume commerciale dell’Australia con la Cina è più grande di quello con gli Stati Uniti, il Giappone e l’India messi insieme.
Ma qualche è cambiato recentemente?
Per molto tempo l’Australia ha considerato la Cina un’opportunità, non una minaccia. Eravamo un’eccezione rispetto ai Paesi europei e agli Stati Uniti. Ma le cose sono cambiate quando la Cina è diventata più grande e più forte e sono emerse prove del comportamento cinese, come i suoi attacchi informatici al Parlamento australiano.
Come ha reagito l’Australia?
La diplomazia australiana, soprattutto negli ultimi tre anni del precedente governo, è stata molto maldestra. Il problema che abbiamo avuto con la Cina non è stato tanto nelle politiche che abbiamo messo in atto, come il bando di Huawei, l’imposizione di nuove restrizioni sulle interferenze straniere e la richiesta di un’inchiesta sulla gestione del Covid-19. Il problema è stato più che altro il modo in cui il precedente governo australiano ha affrontato il problema, sventolando la bandiera di quelli che stavano conducendo questa campagna internazionale.
È cambiato qualcosa con il nuovo governo guidato dal laburista Anthony Albanese?
Il nuovo primo ministro Anthony Albanese ha adottato un approccio diverso alla Cina, ma le politiche sono rimaste le stesse. Il nuovo governo è più silenzioso e discreto. Il lungo periodo senza contatti tra i ministri australiani e cinesi è terminato. Ma allo stesso tempo non stiamo facendo marcia indietro rispetto alle critiche che abbiamo mosso alla Cina. Le cose non torneranno come una volta. La Cina è troppo diversa e le relazioni tra Stati Uniti e Cina sono ora profondamente competitive.
Parliamo di intelligence. “Anche in un’epoca di artificial intelligence, è necessaria la human intelligence”, aveva spiegato qualche anno fa Sir Alex Younger, allora capo dell’MI6. È d’accordo?
Ogni elemento di intelligence è complesso e può essere interpretato in modi diversi. C’è ancora bisogno della human intelligence, che altre forme di intelligence non possono eguagliare. I governi hanno bisogno di una buona intelligence per garantire che le loro decisioni siano prese sulle più solide basi possibili. Basta guardare all’Ucraina per vedere cosa succede da parte russa quando non si dispone di una buona intelligence.
La guerra in Ucraina ha dimostrato un aumento del ruolo pubblico dell’intelligence, come emerso delle dichiarazioni di capi delle agenzie di Stati Uniti e Regno Unito in particolare. È un elemento destinato a perdurare?
Sono rimasto molto sorpreso dalla quantità di informazioni che l’intelligence americana ha reso pubbliche nel periodo precedente l’invasione russa. È stata molto importante e determinante. La battaglia delle narrazioni sull’Ucraina è in corso. E la stanno vincendo gli ucraini e l’Occidente. Una ragione importante è che siamo stati più aperti nel condividere le informazioni, sia direttamente con l’Ucraina sia pubblicamente.