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Povertà, lavoro e Rdc. Distorsioni e scomode verità secondo De Tomaso

Di Giuseppe De Tomaso

Se un reddito di base per chi non ha possibilità di lavorare è stato teorizzato anche da alcuni dei padri nobili del liberismo, è vero che il Reddito di cittadinanza così come strutturato ha creato, in Italia, delle distorsioni. E allora cercare nuove soluzioni è necessario

Che uno Stato moderno e civile debba farsi carico di chi si trova in estreme difficoltà economiche, non ci piove. Persino due mostri sacri del liberismo, come Friedrich von Hayek (1899-1992) e Milton Friedman (1912-2006), non erano ostili al reddito minimo (ovviamente elargito dallo stato) anche a costo di spiazzare e sconcertare i sacerdoti del liberismo assoluto. Ma che uno Paese debba estendere la sua rete protettiva anche a beneficio di chi non vive in condizioni disperate o di chi preferisce vivere grazie alla grazia di Stato, è un altro discorso. Fa chiarezza, in merito, la stessa Costituzione italiana, che nella seconda parte dell’articolo 4 scolpisce così: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”.

Ergo. La Costituzione non parla solo di diritti, parla anche di doveri, a iniziare dal dovere di cercare di realizzarsi nel lavoro, a vantaggio, si capisce, oltre che di sé stessi, anche dell’intera collettività. Ma, chissà perché, questo articolo della Costituzione è sottaciuto e ignorato, manco fosse un parente impresentabile di cui vergognarsi.

Perciò. Se lo Stato ha il dovere di soccorrere chi, per svariate ragioni, rischia di precipitare nell’indigenza più nera, anche i cittadini hanno il dovere di impegnarsi al massimo per contribuire al benessere di tutti e della propria famiglia, senza gravare sulle casse, sempre più leggere, di uno Stato oberato di cambiali. Non foss’altro perché, a furia di inondare di bonus e sussidi l’intera comunità, si rischia di provocare un duplice cortocircuito: l’assuefazione generale alla beneficenza pubblica (che poi, sotto sotto, tanto pubblica non è, perché i denari “pubblici” provengono sempre dalle tasche dei privatissimi contribuenti); il colpo micidiale alle esigenze del calcolo economico, sempre più compresso e condizionato dalle interferenze dello Stato.

Dice: lo stato sociale è una conquista irrinunciabile e non è vero che esso sia di intralcio alla creazione di ricchezza, come dimostra l’esperienza dell’Europa scandinava. Vero, verissimo. Non va trascurato, però, un piccolo grande particolare. Colà, nell’Europa del Nord, gli interventi pubblici non producono mai una distorsione dei meccanismi del mercato concorrenziale, ritenuto, anche dai socialdemocratici, la più collaudata procedura di scoperta o giudicato, se vogliamo parafrasare un famoso detto churchilliano sulla democrazia, la peggiore forma di sistema economico, eccezion fatta per tutte le altre forme sperimentate finora. In Italia, invece, gli interventi pubblici tendono a mettere sabbia negli ingranaggi del mercato, col risultato paradossale di schiacciare gli spiriti imprenditoriali forse più dinamici del mondo libero. Di conseguenza, più aumenta la quota di ricchezza nazionale sottratta ai produttori in nome della redistribuzione, più aumentano, beffardamente, le sacche di povertà. Segno che le leggi economiche non vanno sfidate a oltranza, dal momento che, prima o poi, si vendicano.

Anche il reddito di cittadinanza non sfugge alle riflessioni di cui sopra. Nato per alleviare le sofferenze di chi si ritrova stabilmente escluso dal circolo lavorativo, questo sussidio si è trasformato, per i furbi, in un escamotage, in un trucco per aggravare uno tra i mali più endemici dell’organismo nazionale: il lavoro sommerso, accompagnato da un’infedeltà fiscale non degna di un Paese del G7. E lavoro sommerso significa slealtà imprenditoriale, sconfessione della legalità, sottrazione di risorse ragguardevoli alla cassa comune, beffa continua ai danni dei contribuenti perbene, difficoltà nella pianificazione degli investimenti e nella ricerca di manodopera secondo criteri di trasparenza e correttezza.

Peraltro, fino a poche settimane addietro, cioè fino alle elezioni politiche settembrine, gli stessi pasdaran del reddito di cittadinanza così com’è riconoscevano la necessità di introdurre correttivi, sia pure minimi, per contrastare abusi e cattive abitudini. Oggi, invece, il reddito di cittadinanza (senza paletti o con i paletti?) si è trasformato in strumento di battaglia politica, in feticcio, in uno spartiacque tra amici e nemici del popolo, con la prospettiva di esacerbare gli animi fino al punto di rendere vieppiù incandescente la vita pubblica, che già, sulla Penisola, non è mai placida di suo. E di tutto ha bisogno lo Stivale tranne che di una miscela esplosiva permanente.

Luigi Einaudi (1874-1961) non si stancava mai di ripetere che, prima di deliberare, bisogna conoscere. Ci sono molti studi sul disagio sociale, così come non sfuggono i casi verificabili dai semplici cittadini. Nel Paese persiste un’illegalità di massa, una diffusa tendenza a vivere sulle spalle degli altri, due fenomeni che si scontrano con la rappresentazione mediatica, spesso retorica ed elettoralistica, di una nazione affollata di poveri ed emarginati vari. Se i numeri della povertà fossero davvero quelli sbandierati nelle cifre ufficiali, il Paese sarebbe sull’orlo della Grande Rivolta di piazza, anzi l’avrebbe oltrepassato. Per fortuna, così non è.

Bisognerebbe, nelle aule parlamentari e sugli organi di informazione, discutere sulle cifre, ad esempio su quelle riportate nei libri di Alberto Brambilla. Molti luoghi comuni verrebbero sfatati, molte scomode verità verrebbero a galla, tipo l’incessante mortificazione materiale e immateriale di chi, in regola col fisco, dà il massimo (nel lavoro) per ritrovarsi col minimo (sul conto corrente). Altro che meritocrazia. Di penalità in penalità, piano piano, senza che nessuno se ne accorga, il lavoro (onesto) finirà per diventare un reato.

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