La riforma del Patto di stabilità annunciata dalla Commissione è il riconoscimento che le regole europee e, in genere, i principi dell’ordine economico internazionale, non possono non tener conto del fatto che il quadro teorico che li aveva generati è totalmente cambiato. L’analisi di Pasquale Lucio Scandizzo
La proposta di modifica del Patto di stabilità e crescita (Psc) annunciata dalla Commissione europea, appare avere accolto un principio radicale di riforma, basato sul riconoscimento della specificità delle condizioni economiche e di sostenibilità del debito dei singoli Paesi membri. In linea con questo principio, la proposta mira a risolvere le contraddizioni di base dell’applicazione del PSC, tra cui la combinazione di pretesi automatismi e di obiettivi irrealistici di riduzione del debito.
La proposta sembra inoltre riflettere il consenso suscitato dai più recenti risultati della ricerca economica, tenendo conto della esperienza dei tentativi di applicazione fin ora largamente falliti. Pur nella sua preliminare ed ellittica enunciazione essa prefigura una radicale trasformazione del criterio delle regole fisse, sostituendola con un criterio di valutazione di percorsi di sostenibilità del debito, intesa in senso lato anche come capacità di resilienza (ossia di assorbimento di shock imprevisti).
Ciò implica l’abbandono di criteri numerici uniformi (per il debito pubblico e il disavanzo) e l’adozione di standard di qualità comuni, basati su criteri di plausibilità ed affidabilità, la cui applicazione dovrebbe tener conto delle situazioni diverse dei diversi Paesi. In pratica, a livello europeo, ogni governo proporrebbe un piano di medio-lungo termine contenente un obiettivo di debito e un percorso di evoluzione strutturale dei conti pubblici, la cui adeguatezza sarebbe valutata dalla Commissione dal punto di vista della sua fondatezza politica, economica e fiscale, sulla base di una metodologia comune.
Questo piano servirebbe come base per la programmazione delle finanze pubbliche, tramite una regola di spesa corrispondente. Esso implicherebbe un ruolo crescente della programmazione economica di medio-lungo termine nella determinazione delle politiche di bilancio, ma anche un maggior ruolo della Commissione e del Consiglio nel complementare le politiche fiscali dei singoli Paesi quando questo venisse ritenuto nell’interesse dell’Unione.
Per capire la portata della proposta della Commissione, è utile ripercorrere brevemente la storia del Psc e della sua sofferta applicazione nel decennio passato. Il Psc nasce dal trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance (Tscg), firmato nel 2012 da tutti gli Stati membri dell’UE ad eccezione della Repubblica Ceca e del Regno Unito. Il trattato si poneva l’obiettivo di ridurre le asimmetrie fiscali nell’Unione, attraverso l’obbligo da parte dei suoi firmatari a mantenere disavanzi strutturali (cioè corretti per il ciclo) non superiori allo 0,5% -1% del Pil a seconda che i livelli di debito pubblico siano inferiori o superiori al 60% del Pil.
I limiti di deficit venivano intesi in termini tendenziali, e consentivano uno stimolo fiscale keynesiano durante i periodi di recessione e aggiustamenti strutturali nei periodi positivi del ciclo. Il Tscg raccomandava l’attuazione di queste norme attraverso modifiche costituzionali a livello di Stati membri, con la guida della Commissione europea. Il patto di stabilità e crescita (Psc) era alla base del Tsg ed era fondato sull’idea che il principale pericolo derivante dalle politiche di bilancio nazionali sull’Unione fosse il rischio di insolvenza di uno stato membro. Tale rischio, che è stato al centro della crisi del debito sovrano, dipende dal cosiddetto contagio, ossia dalla ricaduta della perdita di fiducia degli operatori finanziari nelle capacità di servizio del debito di uno o più dei paesi membri o, addirittura nell’aspettativa (come è accaduto per la Grecia) di una insolvenza accompagnata dall’uscita.
Il secondo rischio derivante dalla politica economica dei singoli stati, del tutto trascurato dalle regole del PSC, riguardava la domanda aggregata. Le politiche nazionali fiscali dei singoli Paesi negli ultimi 20 anni mostrano infatti rilevanti ricadute sugli altri Paesi membri, a causa della loro crescente interdipendenza. L’assenza di un meccanismo di coordinamento fiscale ha creato un circolo vizioso tra politiche espansive dei Paesi con tassi di cambio reali sopravvalutati e politiche restrittive di quelli con tassi sottovalutati.
Il dibattito recente sull’argomento ha sottolineato come la questione delle regole fiscali del bilancio europeo siano cruciali per tenere conto del rischio di interdipendenza e, implicitamente, anche di quello di insolvenza. Un largo consenso di policy makers ed economisti si è formato sul principio che le autorità nazionali dovrebbero essere libere di fissare obiettivi diversi di bilancio e di debito. Questi obiettivi infatti rientrano nella scelta politica di distribuzione della crescita tra generazioni presenti e future, che dipendono a loro volta dalle preferenze sociali associate con la struttura demografica e culturale della economia nazionale.
Pur in una prospettiva di riequilibrio dei conti pubblici, un ragionevole vincolo fiscale comune da imporre appare quindi unicamente la sostenibilità del debito, ossia la capacità di servirlo anche in condizioni di stress e tenendo conto dei margini di sicurezza necessari ad assicurare una resilienza sufficiente (il rientro in tempi ragionevoli su un sentiero sostenibile dopo uno shock). La sostenibilità del debito e la sua riduzione tendenziale dipendono a loro volta dalla capacità di generare surplus primari socialmente accettabili. Bisogna inoltre evitare che le politiche fiscali di un Paese provochino eccessi di domanda o di offerta che danneggino altri Paesi e alimentino squilibri globali di crescita e di distribuzione del reddito e dei consumi.
Il criterio delle regole fisse e dei parametri di bilancio doveva essere combinato, secondo le procedure di applicazione del Psc, con una programmazione preventiva concordata tra Paesi membri e Commissione a cui facevano seguito (a fine anno) l’approvazione degli obiettivi incorporati nelle leggi di bilancio approvate dai parlamenti nazionali. Questa procedura si è rivelata largamente formale, con la elaborazione di documenti programmatici irrealistici e spesso smentiti dai bilanci effettivamente approvati.
Piuttosto che sui documenti programmatici, il confronto tra istituzioni europee e le autorità fiscali nazionali tendeva quindi a concentrarsi su pochi parametri (soprattutto il deficit come percentuale del Pil, visto il livello irrealistico del parametro relativo al debito) alla fine del ciclo di bilancio, con scarsi risultati in termini di corresponsabilità fiscale e dello stesso rispetto dei parametri, nonostante la loro prominenza nel dibattito pubblico e nella comunicazione.
IL Psc era inoltre basato sul postulato che l’impegno dei governi a comportarsi in modo coerente con le scelte di politica economica potesse non essere credibile, a causa delle pressioni sociali e dei cicli elettorali. Da ciò la necessità che per i Paesi più esposti alla critica dei mercati, le scelte più critiche fossero accompagnate, o addirittura precedute, da un sistema di regole, con sanzioni implicite o esplicite, che rendessero difficile per i governi disattendere gli impegni presi precedentemente.
Le politiche generate da questo tipo di prescrizione in tutto il mondo hanno incluso vari tipi di provvedimenti “capestro”, compresi i tentativi di proibire per legge provvedimenti specifici quali la svalutazione o i deficit di bilancio. Il consenso attuale degli economisti è che esse si sono dimostrate largamente inefficaci e, come il sistema delle regole europee, particolarmente inadatte a gestire periodi prolungati di recessione, anche in economie avanzate. L’esperienza della pandemia sembra anche aver dimostrato in modo conclusivo che è irragionevole aspettarsi che le regole prevedano tutte le possibili situazioni che la politica fiscale potrebbe dover affrontare. Ha inoltre dimostrato che un forte shock esterno può presentare un compromesso irrisolvibile tra stabilizzazione macroeconomica e sostenibilità del debito.
In conclusione, la riforma del Psc annunciata dalla Commissione è anche il riconoscimento che le regole europee e in genere i principi dell’ordine economico internazionale non possono non tener conto del fatto che il quadro teorico che li aveva generati è totalmente cambiato. La macroeconomia alla base delle regole e delle prescrizioni del PSC è obsoleta. Essa, infatti, abbracciava l’ipotesi che nel lungo periodo la crescita fosse determinata esclusivamente da fondamentali come i tassi di crescita della popolazione e della produttività, e che il compito della politica economica fosse soprattutto quello di alleviare gli effetti degli attriti di mercato.
L’esperienza ha dimostrato che questa impostazione, sostanzialmente reazionaria (nel senso anti-keynesiano del termine) è fallimentare perché elude l’obiettivo sostanziale dello sviluppo economico e contribuisce alla crescente insostenibilità del sistema sociale e ambientale di produzione, consumi e distribuzione dei redditi. Una politica economica comune, coordinata con le politiche nazionali, ma basata su una visione strategica e strumenti europei, è quindi essenziale. Essa richiede, anche per una efficace riforma del Psc, un salto federale in diversi settori, quali politica monetaria e fiscale (regole), politica dei mercati del lavoro e modelli sociali, flussi migratori, politica di cooperazione e rinnovata politica industriale e tassi di cambio.